Coronavirus, cambia la pratica dei Centri antiviolenza: dalla vicinanza fisica al telefono
In tempi di coronavirus cambiano radicalmente stili di vita, abitudini familiari e personali, modalità di lavoro. La parola d'ordine è: distanza. Ma cosa accade quando alla base di una pratica...
In tempi di coronavirus cambiano radicalmente stili di vita, abitudini familiari e personali, modalità di lavoro. La parola d'ordine è: distanza. Ma cosa accade quando alla base di una pratica, come quella utilizzata dalle operatrici nei centri antiviolenza, ci sono, invece, la relazione e la vicinanza? A porre il problema è Silvia Iotti, presidente dell'associazione 'Nondasola’ che gestisce il centro antiviolenza della rete D.i.Re Casa delle donne di Reggio Emilia a cui sono legate quattro case rifugio.
"La nostra difficoltà principale è stata proprio la necessità di cambiare approccio, visione e pratiche- racconta all'agenzia Dire- La relazione tra donne è per noi la chiave di intervento, la vicinanza, l'affiancamento, non sono una categoria astratta. È una vicinanza anche di corpi, in cui si mettono in gioco il toccarsi, l'abbracciarsi, il piangere. La necessità di mettere di mezzo una distanza ci sta facendo davvero faticare molto, perché non ci appartiene. Laddove noi lavoravamo con la presenza ora dobbiamo spiegare con le parole". Una rivoluzione copernicana, che sta portando "con uno sforzo" a privilegiare "i colloqui telefonici, cosa che prima non facevamo, perché le donne ci chiamavano e prendevano un appuntamento per incontrarci in sede".
Ora è tutto diverso: "abbiamo cercato di ridurre al minimo il contatto con la casa, le donne faticano a raggiungerci e anche noi cerchiamo di dare appuntamenti in là nel tempo per proteggerle, le incontriamo solo se ce lo chiedono esplicitamente nella stanza più grande che abbiamo e cerchiamo di non farle venire con i bambini". In questa situazione i colloqui telefonici "hanno preso un altro colore: quello che prima era un semplice ascolto ora è un'attività di sostegno. Le donne continuano a telefonare- fa sapere Iotti- ma ho l'impressione che stiamo facendo meno colloqui e credo che questo dipenda dalle circostanze". Il numero attivo "tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18 è lo 0522585643-44, mentre il nostro h24 è dedicato a forze dell'ordine e Pronto Soccorso".
Anche nelle case rifugio la vita di donne e bambini con l'emergenza è cambiata. "Abbiamo interrotto tutte le attività collettive, dalle riunione tra le donne delle varie case ai momenti di socialità, ma prestiamo più attenzione al contatto con ognuna di loro", racconta la presidente di 'Nondasola’. Nelle case "normalmente non c’è una nostra presenza fissa perché partiamo dal presupposto che le donne siano responsabili di se stesse, della propria vita. Sanno che devono uscire il meno possibile e organizzarsi per la spesa. Noi lavoriamo con un volontariato molto significativo ed essenziale. In questo periodo abbiamo chiesto anche alle volontarie di non andare nelle case per evitare affollamento. Le nostre riunioni di equipe ormai sono via Skype e anche la relazione tra noi è molto ridimensionata, il che rappresenta un grosso peso".
Anche a Reggio Emilia, come nel resto d'Italia, scarseggiano i dispositivi di protezione. "Le istituzioni non ci hanno fornito le mascherine perché non le avevano nemmeno loro, per fortuna le abbiamo comprate all'inizio dell'emergenza in farmacia- sottolinea Iotti- Nonostante fossero in difficoltà, però, ci hanno dedicato attenzione e ci siamo confrontate con la referente in Comune per capire come applicare la normativa. Eravamo in attesa di norme un po’’ più chiare che regolamentassero i luoghi dove ci si ferma a dormire come le case rifugio, ma non ci sono disposizioni precise. Noi, per ora, le stiamo trattando come delle convivenze".
Al di là del "momento di tragedia che stiamo vivendo, il messaggio a politica e istituzioni è sempre lo stesso", dice Iotti, la quale lancia il suo appello: "Avere uno sguardo sulle donne e sui centri antiviolenza. Abbiamo scelto di continuare ad esserci cautelandoci, ma anche assumendoci un rischio- ragiona- Non ho sentito nessuna delle 13 operatrici che lavorano al centro dire: 'Non vengo, ho paura'. Per questo credo sia importante far sapere alle donne che continuano ad esserci dei luoghi dove poter chiedere aiuto, un aiuto che si costruisce insieme, tenendo necessariamente conto di questa contingenza. La molla che ci muove- conclude- è il tentativo di ovviare alla distanza esprimendo vicinanza alle donne".