Celibato dei preti, andiamo oltre i cliché. La riflessione di Marco Cagol, vicario episcopale per i rapporti con il territorio
Gli algoritmi della comunicazione schizzano alle stelle quando su stampa e social vengono associate le parole “sesso” e “prete” (magari anche quando i fatti sono in via di accertamento, come nel caso di questi giorni). Chissà se questo corrisponde veramente al sentire più profondo delle persone, in particolare dei credenti.
Sul rapporto tra preti e sesso l’opinione pubblica viaggia su un vecchio cliché della concezione cristiana della sessualità, che sa molto di caricatura. Basterebbe aprire i manuali di teologia morale famigliare e sessuale su cui almeno da 40 anni si studia nelle Facoltà di teologia, o i sussidi formativi che parrocchie e associazioni usano per l’educazione cristiana dei giovani, per capire che il presupposto culturale della bulimia comunicativa provocata da quel binomio è assolutamente falsato. La visione cristiana della sessualità è altissima. La teologia ne parla come del vertice della relazione tra l’uomo e la donna, un tesoro delicato, fragile, che va custodito all’interno di una relazione forte, integrale, e, per i credenti, consacrata, cioè affidata a Dio stesso, “inventore” della sessualità.
È in questa visione altissima che va inserito il tema del celibato. Ed è questo oggi che si fa fatica a trasferire all’opinione pubblica, certo anche a motivo di alcune vicende reali. Il celibato non è una imposizione che la Chiesa dà ai preti, affinché non si “sporchino” con il sesso per poter essere tali. Il celibato, piuttosto è un dono che esalta, paradossalmente, l’altro dono immenso della sessualità fedele. Esso è un dono che, vissuto fedelmente, vuole mostrare come sia possibile all’essere umano (ad ogni essere umano) un’unione con Dio intensa ed esclusiva, come lo è l’unione tra l’uomo e la donna nel suo vertice. Ed è segno eccedente ogni concezione materialistica della vita: per questo può apparire “stoltezza” agli occhi di molti.
Certamente non è una passeggiata il celibato consacrato, come non lo è la fedeltà e l’indissolubilità coniugale, perché si tratta di concezioni esigenti della vita, di scelte importanti, di strade strette che vengono messe davanti all’uomo, per fare della vita un dono totale. Nessuno del resto può dire che è più santa o più pura la scelta del celibato rispetto a quella delle nozze cristiane. Sono due vie di santità ugualmente ispirate dal Vangelo.
Certo, esistono le infedeltà. Spiace – ma forse è assolutamente inevitabile per i pruriti che ci abitano tutti e per il cupio dissolvi che anima la nostra società rispetto alle sue radici spirituali – che nella narrazione pubblica di vicende riguardanti coloro che faticano in questa fedeltà, una limpida e gioiosa concezione del celibato non venga raccontata, come se anch’essa non fosse un fatto per molti credenti, e per molti preti. Lo stesso vale per il matrimonio fedele, indissolubile e fecondo e per la vita consacrata.
Il disprezzo e l’irrisione che le scelte cristiane di vita a volte subiscono nell’opinione pubblica non è un guadagno per nessuno. Certamente ciò avviene anche a causa delle incoerenze di consacrati e sposi cristiani, ma nessuna incoerenza può autorizzare a dire che non sono valori, ideali, chiamate altissime e possibilissime (come testimoniano tanti preti e tanti sposi), e a umiliare pubblicamente intere categorie di persone a motivo di alcuni che sbagliano. Anche perché dopo ogni sbaglio, può esserci sempre una ripartenza. Come cantava Franco Battiato, «le nuvole non possono annientare il sole».
don Marco Cagol, vicario episcopale per i rapporti con il territorio