Calo demografico: pensioni a rischio
Il recentissimo rapporto dell’Istat sul 2018 ha certificato un ulteriore calo delle nascite (-4% rispetto all’anno prima) e i dati sul primo semestre dell’anno in corso anticipano che il 2019 segnerà l’ennesimo record negativo. Solo una politica capace di ragionare in termini di sistema Paese e di misurare il futuro in anni e non in mesi potrebbe cercare di invertire la tendenza
In Italia l’età media in cui concretamente si va in pensione è troppo bassa e se non si corregge il tiro il sistema previdenziale non potrà reggere. E’ l’Ocse, l’organizzazione dei Paesi più sviluppati, ad affermarlo nel suo rapporto sulla previdenza appena pubblicato. Come troppo bassa? E la legge Fornero? E Quota 100 diventata un formidabile cavallo di battaglia elettorale in nome della pensione anticipata? All’Ocse non sono impazziti. Il rapporto conferma che in Italia, rispetto agli altri Paesi, l’età legale per la pensione di vecchiaia è tra le più elevate: 67anni. Il punto è che – considerate tutte le possibili alternative ed eccezioni – l’età effettiva in cui si va in pensione è 62 anni, due in meno della media Ocse. E il dato è riferito al 2018, quindi non tiene conto ancora conto né di Quota 100 né del blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita.
C’è qualcosa di surreale nel dibattito sulle pensioni in Italia. In un Paese che invecchia drammaticamente la priorità è diventata consentire alle persone di andare in pensione prima. E’ un mondo al contrario quello dipinto dalla demagogia. E si continuano a illudere i cittadini elettori.
Come se fosse possibile eludere anche in questo caso l’emergenza denatalità, che è una questione epocale e che investe tutte le dimensioni della vita di una società, ma nel campo previdenziale manifesta i suoi effetti in un modo così tangibile e quantificabile che solo con il gioco delle tre carte della propaganda può essere nascosta agli occhi dell’opinione pubblica.
Il sistema non può reggere perché nel 2050 in Italia i pensionati saranno più dei lavoratori, avverte ancora l’Ocse. In quell’anno, nel nostro Paese, le persone in età attiva saranno 6 milioni in meno rispetto a oggi, secondo le stime dell’Istat. Proprio il presidente dell’Istituto di statistica, Gian Carlo Blangiardo, nei giorni scorsi ha ricordato due dati-limite: tra quarant’anni gli over 90 saranno oltre due milioni e i centenari ben 87 mila. Già oggi sono oltre 650 mila le persone che percepiscono una pensione da più di 38 anni e 3 milioni e mezzo quelle che la ricevono da più di 26 anni, secondo una recente ricerca del centro studi Itinerari previdenziali. Tale ricerca, peraltro, ha rilevato che nel 2018 (quindi prima degli effetti di Quota 100) il rapporto tra attivi e pensionati ha registrato il miglior livello degli ultimi 22 anni (1,45). Evidentemente, pur con tutti i suoi limiti, la “stretta” della legge Fornero ha prodotto qualche risultato in termini di riequilibrio del sistema, grazie al contestuale aumento del numero degli occupati. Ma di che occupazione si tratta? Vale la pena sottolineare ancora una volta che ai fini statistici risulta occupato chi ha lavorato almeno un’ora nella settimana. L’apporto al regime previdenziale del lavoro precario, in termini di contributi versati, è estremamente più limitato di quanto il numero degli occupati in generale indurrebbe a pensare e questo è un ulteriore elemento di debolezza strutturale del sistema.
Intanto Quota 100 è stata confermata nella legge di bilancio all’esame del Parlamento. Vi hanno aderito meno persone del previsto perché, a conti fatti, ci si è accorti che la riduzione degli anni di contribuzione comportava inevitabilmente una riduzione dell’assegno percepito.
La misura è stata confermata sia per motivi politici (il M5S non ne avrebbe accettato lo smantellamento) sia perché, come ha osservato saggiamente il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, i meccanismi previdenziali sono materia delicata e non si può intervenire su di essi a singhiozzo. Lavoratori e imprese hanno assunto impegni sulla base delle nuove norme e un fulmineo dietro-front avrebbe creato situazioni analoghe a quella degli esodati. Si è quindi deciso di andare avanti fino alla scadenza prevista dei tre anni, al termine dei quali sarà comunque necessario un intervento regolatore per evitare che tra fine 2021 e inizio 2022 si determini uno “scalone” con gli effetti già visti con la brusca entrata in vigore della legge Fornero.
Il ministro del lavoro, Nunzia Catalfo, ha annunciato l’intenzione del governo di avviare da gennaio un percorso che porti al superamento del sistema in vigore dal 2011, su cui Quota 100 ha inciso tutto sommato in modo marginale. L’esito di questo percorso dipenderà dalle condizioni politiche, ovviamente, ma l’esigenza di una riforma organica è reale, soprattutto per affrontare finalmente la questione di come assicurare una pensione ai giovani lungamente esclusi dal mercato del lavoro e a tutti coloro che svolgono lavori precari e discontinui. Rischia di essere tutto vano, però, se non si porrà mano all’emergenza denatalità che è la radice ultima anche della crisi del sistema previdenziale. Il recentissimo rapporto dell’Istat sul 2018 ha certificato un ulteriore calo delle nascite (-4% rispetto all’anno prima) e i dati sul primo semestre dell’anno in corso anticipano che il 2019 segnerà l’ennesimo record negativo. Solo una politica capace di ragionare in termini di sistema Paese e di misurare il futuro in anni e non in mesi potrebbe cercare di invertire la tendenza.