Anniversario guerra in Ucraina: verità e giustizia per trovare la pace
L’avvio di negoziati per la pace (non solo di pace), per diventare operativo richiede la presenza di tutti i coinvolti e a vantaggio anzitutto di due obiettivi: la verità e la giustizia. Termini oggi lontani e che un anno di guerra in Ucraina ha ulteriormente separato dal linguaggio internazionale. Ma è inutile negare che sono l’unica possibilità per rimettere intorno ad un tavolo gli attori protagonisti come pure le tante comparse che nelle “opportunità” della guerra sono sempre pronte a cercare e vivere il loro momento di gloria
È trascorso un anno e l’invasione armata della Russia in Ucraina è un dato effettivo, privo di ogni giustificazione o attenuante. Un anno raccontato e descritto con tanta precisione e dettagli da far immaginare d’essere davanti ad uno schermo per guardare lo svolgersi di operazioni militari o ancor più giocare alla guerra. Ma la realtà è altra, è quella del crimine di aggressione commesso dai russi, di migliaia di vite umane spezzate, di civili diventati obiettivo militare, di spostamenti forzati della popolazione, di distruzione di strutture e centri abitati… Su tutto la chiara evidenza di crimini di guerra, la negazione cioè di ogni regola umanitaria, quelle ispirate dal “mai più la guerra”. E poi, il trionfo dell’autocrazia capace di operare dimenticando il principio dell’inviolabilità delle frontiere o il divieto di minaccia dell’uso della forza, specie se nucleare. Un trionfo rapidamente divenuto anche emulazione, in alcuni casi già operativa, in altri sembra solo questione di tempo.
Uno scenario che all’uso delle armi affianca altri modi di intendere la guerra. La guerra in Ucraina, infatti, la si combatte anche in altri contesti e con altre modalità. Come altrimenti classificare gli squilibri nell’economia mondiale, la crisi alimentare che soffoca aree dove fame e malnutrizione già sono realtà, l’uso strategico dell’energia, la rottura di equilibri territoriali e strategici lungamente discussi? Paradossale poi, che mentre armamenti sofisticati e sfuggenti al controllo umano provocano ogni distruzione, si moltiplicano i piani di ricostruzione, come pure si annunciano gli impegni di spesa (ufficialmente gli aiuti) pensati e progettati sia per proseguire l’azione militare che in vista di un ritorno alla normalità.
Il caso ucraino ha ulteriormente frammentato le relazioni internazionali, favorito polarizzazioni e distanziato gli interessi degli Stati, anche tra i membri di coalizioni o istituzioni comuni; ha diviso all’interno degli Stati le opinioni tra interventisti e non, e riacceso il desiderio di pace; ha esaltato il fattore religioso, tanto importante in quell’area, rendendolo uno strumento di benedizione della guerra sostenendone l’idea ma anche di divisione all’interno della cristianità ortodossa ucraina. Una situazione complessa che però rischia di collocare quella guerra tra le tante, di farne una notizia secondaria a meno di eclatanti episodi. Per evitarlo è necessario andare oltre, far tacere le armi e non solo per il timore di escalation o degenerazioni del conflitto o per consentire transazioni commerciali come quelle sui cereali o i fertilizzanti, ma per cancellare un pericoloso precedente.
A rendere ancor più complessa ogni cosa è la convergenza di interessi diversificati e contrapposti, molti fino ad un anno fa lontani da quelle terre. Ma soprattutto è la volontà di ritenere normale nella vita internazionale sentirsi potenza, volontà mostrata senza alcuna remora o pudore. Infatti, per tutti gli attori – quelli sulla scena o dietro le quinte – non c’è più solo la conquista o la difesa di territori, quanto piuttosto l’obiettivo di affermarsi come potenza e giocare quel ruolo per finalità più ampie, nei diversi scenari mondiali. Quasi un ritorno alla teoria del giusto equilibrio fra le Potenze, dimenticando che la pace “non può ridursi ad assicurare l’equilibrio delle forze contrastanti” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2304).
Si dice che sia un elemento proprio dei conflitti, ben sapendo che così si ritorna alla logica secondo cui le potenze per coesistere possono anche ricorrere alla violenza bellica, imporre con la forza fatti e decisioni, senza tenere conto delle aspettative dei popoli, della realtà concreta e soprattutto dei principi cardine dei rapporti internazionali. In Ucraina, quei principi non sono stati solo violati, ma d’un tratto letteralmente stralciati dalle agende internazionali per lasciare posto all’idea della contrapposizione piuttosto che al bisogno di avviare tavoli negoziali. In altri termini, c’è l’assenza del cosiddetto ordine internazionale che lungi dall’essere un’aspirazione alla coesione tra gli Stati, è l’insieme delle modalità che permette loro di coesistere, cooperare, negoziare, finanche unirsi. Che i dispositivi dell’ordine internazionale prodotto dopo la seconda guerra mondiale non fossero più applicabili era noto, del resto la crisi del sistema multilaterale è iniziata negli anni ‘90 del XX secolo; ma che alcun dispositivo sia ritenuto necessario, lo ha stabilito l’anno trascorso che ha visto affermarsi visioni e interessi unilaterali come il vero fattore determinante sui campi di battaglia. E questo nonostante tutti invochino l’intervento di una non meglio precisata Comunità internazionale. Ciò che emerge è la completa esternalizzazione della crisi ucraina (e non solo) dai tavoli della diplomazia siano essi quelli temporanei o quelli permanenti espressi dalle grandi Organizzazioni internazionali di fatto private del ruolo attribuitogli dagli Stati, ridotte a vuoti contenitori nei quali l’idea di essere in crisi è sostituta dal proseguire un lavoro come se tutto fosse normale.
La storia scritta in Ucraina sta imponendo un’analisi dei conflitti limitata ai fatti e alle situazioni che li hanno determinati e agli effetti sul lungo periodo, tralasciando di leggere quanto e quanti stanno impedendo la pace. Si, la pace, parola che i numerosi appelli di Papa Francesco descrivono non come sentimento o aspirazione, ma come atto di volontà che richiede a tutti – governanti e governati – un coraggio più forte di quello che è necessario per combattersi. La pace non è un’attesa, ma un processo nel quale giustizia, legalità e volontà di negoziare diventano l’esatto opposto di atteggiamenti, alleanze e sostegni che hanno come obiettivo l’acquisizione di territori o l’ampliamento delle sfere di influenza e per effetto il prolungamento di un conflitto.
Cosa ci attende, allora? Le previsioni per quanto realistiche, non possono essere reali di fronte ad uno scenario che evidenzia da un lato l’impegno di tutti gli Stati, quantomeno in ragione dell’appartenenza a Istituzioni intergovernative o per obiettivi e linee politiche, dall’altro la diffusione di un conflitto su base planetaria che, pur se localizzato nell’azione militare, resta globale. Del resto i processi e le realizzazioni sul piano internazionale sono sempre frutto non di ipotetiche volontà, ma di volontà che hanno valutato gli effetti e, ancora di più, capaci di collegare il conflitto o i conflitti a situazioni più ampie. Oggi come ieri, il traguardo ultimo non è quello di una pace teorica, ma di una pacifica coesistenza realizzata con gli strumenti propri del metodo della pace: rispetto reciproco, cooperazione, finalità comuni, obbligazioni condivise, capacità di preservare un generale consensus da parte degli Stati verso gli obiettivi di stabilità e sviluppo, e non ultimo la soluzione pacifica delle loro controversie. È nella responsabilità di ogni Paese evitare che contrasti e pretese trovino risposta nell’uso della forza armata, come pure riconoscere il superiore valore della vita umana, di propri e altrui cittadini, rispetto al baratro dell’azione bellica.
Su questa linea, forse anche le rivendicazioni alla base di un conflitto più che decennale possono trovare composizione, in concreto attraverso forme di giustizia riparativa, restaurativa e, perché no, di riconciliazione. Ci sarà bisogno di una road map, ma non è impossibile se accanto a quella di strutture e città, la ricostruzione riguarderà l’ordine internazionale. Un aspetto quest’ultimo dove il termine ricostruzione non significa modificare qualcosa, magari riscrivere qualche norma, riformare uno statuto o istituire nuove strutture, ma attivare modalità per identificare le contrapposizioni, prevenire il loro impatto, potenziale o effettivo, bloccarne gli effetti devastanti sul fattore umano, sulle istituzioni, sul regime dei diritti e libertà, sull’ambiente umano.
L’avvio di negoziati per la pace (non solo di pace), per diventare operativo richiede la presenza di tutti i coinvolti e a vantaggio anzitutto di due obiettivi: la verità e la giustizia. Termini oggi lontani e che un anno di guerra in Ucraina ha ulteriormente separato dal linguaggio internazionale. Ma è inutile negare che sono l’unica possibilità per rimettere intorno ad un tavolo gli attori protagonisti come pure le tante comparse che nelle “opportunità” della guerra sono sempre pronte a cercare e vivere il loro momento di gloria.
Vincenzo Buonomo