America Latina. Carriquiry: “Il continente sta entrando in una fase di forte effervescenza sociale”
"Decisiva, per il futuro, sarà la capacità di dialogo e di incontro, si avrà uno sviluppo solido solo in presenza di vasti accordi politici e sociali che evitino di estremizzare la polarizzazione". Ne è convinto Guzmán Carriquiry Lecour, già vicepresidente e segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina (Cal), commentando quanto sta accadendo ormai da mesi nella sua “Patria grande”. "Le proteste - conferma - hanno come cause di fondo la povertà e la diseguaglianza"
“Quello che sta accadendo in America Latina è come una gigantesca esplosione di una pentola a pressione”. A causarla, nel mezzo di un cambio d’epoca, un mix di diseguaglianza, rottura dell’ordine sociale, corruzione, modelli economici fallimentari, mancanza di credibilità della politica. È l’analisi di uno dei massimi esperti del continente, Guzmán Carriquiry Lecour, che dopo aver servito per lungo tempo il Vaticano, negli ultimi anni in particolare come vicepresidente e segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina (Cal), continua a seguire con attenzione le vicissitudini della sua “Patria grande”.
Carriquiry ha osservato in queste settimane quanto stava accadendo in America Latina, con un’esplosione di proteste popolari che ha interessato, in particolare ma non solo, Ecuador, Cile, Bolivia, Colombia, oltre a quelle, già attive da tempo, in Venezuela, Nicaragua, Haiti. Ha riflettuto e si è consultato a vari livelli. Il risultato è un lungo articolo, intitolato “Cos’è quello che sta succedendo in America Latina?”, destinato a essere pubblicato, in spagnolo, sul sito della Cal. Un’analisi a tutto tondo, articolata. Il Sir ha potuto leggerla in anteprima. E ha rivolto alcune domande a Carriquiry, nell’intento di presentare più in sintesi il suo pensiero.
Cosa sta succedendo, quindi, in America Latina?
Si sta percependo, in qualche modo che l’America Latina sta entrando in una nuova fase del suo andirivieni di alternanze politiche, senza quella continuità che assicura un autentico progresso economico, sociale e politico.
È sotto gli occhi di tutti che il continente sta entrando in una fase di forte effervescenza sociale, con proteste popolari spontanee sulle strade di Haiti, Porto Rico, Nicaragua, Colombia, Ecuador, Bolivia e Cile. Tuttavia, avverto che ci sono poche risposte nell’ambito del dibattito politico e intellettuale dell’America Latina. O, almeno, poche risposte ragionevoli e convincenti. Le élite finanziarie, politiche e intellettuali dell’America Latina non sono state capaci di prevedere e comprendere ciò che stava per succedere. E anche la Chiesa latinoamericana è ora chiamata a discernere i “segni dei tempi”, nell’attento ascolto della realtà, come ci invita a fare Papa Francesco.
Proviamo, allora, ad andare in profondità. Perché la protesta esplode proprio ora?
La premessa è che siamo dentro un grande cambiamento d’epoca, dopo che il marxismo e il neocapitalismo trionfante hanno mostrato tutti i loro limiti. Un’altra premessa è la crisi della democrazia rappresentativa e dei partiti tradizionali. In tale scenario ci sono poi alcune questioni legate all’America Latina, pur avvertendo che nei vari Paesi ci sono situazioni molto diverse tra loro. A partire dal fatto che è chiaro che le proteste hanno come cause di fondo la povertà e la diseguaglianza.
Un problema antico che non si è risolto nel decennio scorso, nonostante momenti di crescita economica. Come mai?
È vero, quelli tra il 2007 e il 2014 sono stati per l’America Latina gli anni delle “vacche grasse” e questo era dovuto soprattutto al prezzo alto di molti prodotti energetici, minerali, agricoli e legati all’allevamento. Così, alcune decine di milioni di latinoamericani si sono inseriti nel mercato del lavoro e hanno avuto accesso ai servizi di base, alla sanità, alla scuola, ai servizi sociali, aumentando anche la loro capacità di consumo. Nel 2010 l’Economist parlò di “decade latinoamericana”.
E poi, cosa succede?
Purtroppo, i Paesi latinoamericani si sono limitati a “succhiare risorse”, al cosiddetto “neo-estrattivismo”, senza affrontare le necessarie riforme strutturali, per risolvere la storica diseguaglianza sociale, riformare il fisco, migliorare i servizi pubblici. Sono rimasti dipendenti delle materie prime, senza tra l’altro un’attiva politica internazionale per regolare i prezzi di questi mercati. Il periodo delle “vacche grasse” è finito, ma ora la regione è più dipendente dalle esportazioni di materie prime maggiore che alla fine del ventesimo secolo. E dal 2017 la povertà è tornata a crescere. Oggi 184 milioni di latinoamericani, il 30,2%, vive in situazione di povertà, 62 milioni (il 10,2%) in condizioni di povertà estrema. E la regione latinoamericana continua a essere quella con la maggiore diseguaglianza del mondo intero. Ecco perché dico che è esplosa una grande pentola a pressione.
In tutto questo, si percepisce una classe politica spesso corrotta e inadeguata. È così?
Dobbiamo tenere conto che ha un grande peso la corruzione generalizzata. E fa riflettere il fatto che povertà e diseguaglianza si abbiano in Paesi che hanno avuto indirizzi politici opposti: in Venezuela come in Colombia, in Cile come in Nicaragua. A questo si aggiunge la rottura dell’ordine sociale, nel momento in cui le istituzioni perdono credibilità, non solo i partiti, ma anche le élite finanziarie, o le forze armate, o gli stessi sindacati, che difendono soltanto i lavoratori regolari, ma non le tantissime persone che vivono ai margini o con lavori precari. Per questo il Papa ha colto con chiarezza l’importanza dell’irruzione dei movimenti popolari.
Torniamo ai partiti. Destra e sinistra sembrano in crisi, anche in America Latina…
Tornando ai partiti noto che i conservatori e i liberali continuano a ripetere le loro formule neo-liberiste ad oltranza, senza aver imparato niente dalle profonde crisi economiche, finanziarie e sociali che si sono susseguite. A tal proposito, risulta per esempio evidente che il Cile non risolverà i suoi problemi con riforme di facciata e neppure con una nuova Costituzione, ma solo con una revisione molto profonda della sua politica economica e sociale. Anche in Argentina le politiche liberali di Macri si sono rivelate fallimentari. Al tempo stesso, si nota anche una sorta di crisi ed esaurimento della sinistra, sia a livello politico che intellettuale. In alcuni Paesi, l’idolatria del potere e il suo esercizio centralista e verticali hanno separato la sinistra politica dalla società civile. Senza che, nei casi di sconfitta, sia stata elaborata una severa autocritica. La stessa suggestiva consegna del “socialismo del secolo XXI” è stata una copertura ideologica per regimi autocratici e liberticidi, come quelli di Venezuela e Nicaragua.
Negli ultimi mesi è caduto un altro leader della sinistra, Evo Morales in Bolivia. È stato vittima di un golpe?
È stato vittima di un cedimento istituzionale, una forma edulcorata per indicare una specie “sui generis” di colpo di stato. Ma tutto ciò è avvenuto per la sua smisurata sete di potere personale, provocando per primo la crisi istituzionale, nel non rispettare il risultato del referendum contro la sua rielezione e nell’operare brogli, come pare possibile, nelle recenti elezioni. Avrebbe invece potuto lasciare la presidenza al termine del suo mandato con ottimi risultati economici e sociali e, semmai, riproporsi in futuro. Ora la Bolivia entra in una fase di forte instabilità istituzionale e contrasti sociali.
Le manifestazioni portano anche ulteriore violenza. È un elemento di preoccupazione?
I gruppuscoli violenti meriterebbero uno studio serio, soprattutto nel caso del Cile, dove impressiona questa volontà di creare una strategia di inaudita violenza permanente. È anche molto probabile che nei gruppi violenti si inserisca anche la rete capillare del narcotraffico, che è diventato la multinazionale più redditizia dell’America Latina.
Nel suo articolo si riferisce ai tre Paesi più grandi: Messico, Argentina e Brasile. È decisivo sapere dove andranno?
Sì, lo sguardo va concentrato soprattutto su di essi che concentrano la maggior parte dell’economia e di capitale umano del continente. In Messico López Obrador ha ereditato una situazione impossibile, in preda alla criminalità, schiacciato tra il “muro” degli Usa e il vulcano migratorio dell’America centrale. Scrissi che aveva però la possibilità di guidare un grande movimento nazionale e popolare di rigenerazione e ricostruzione del Paese. Una sfida ancora aperta, anche se al momento si sono viste politiche demagogiche e confuse. Bisogna tenere aperta la speranza anche sull’Argentina di Fernández, il quale giustamente ha immediatamente affrontato l’emergenza sociale, sanitaria e lavorativa. In Brasile, la presidenza di Bolsonaro appare avventurosa e incerta, con raptus di volgarità e aggressività minacciose che non appartengono alla politica di un grande Paese. Il suo consenso, però, si è molto ridotto. Quello che succederà in Brasile nei prossimi anni avrà importanti ripercussioni in tutta l’America Latina.
Quali prospettive per il futuro e quali sfide per la Chiesa latinoamericana?
Non vanno perse di vista la prospettiva e l’utopia della “Patria Grande”. L’integrazione latinoamericana è una necessità e una priorità ineludibile e urgente, inscritta nella nostra vocazione e nel nostro destino. Decisiva, per il futuro, sarà la capacità di dialogo e di incontro, si avrà uno sviluppo solido solo in presenza di vasti accordi politici e sociali che evitino di estremizzare la polarizzazione. Ma servono anche nuovi progetti storici, vorrei dire delle nuove “terze vie”. E per questo è importante una nuova presenza di cattolici in politica, chiesta da Papa Francesco.