Alluvione, pericolo scampato. Ma adesso non “culliamoci” sui bacini di laminazione
Fiiiuuuuuuuuuuuu. Una manciata di lettere per portare sulla carta il lungo sospiro di sollievo che qualche giorno fa ha attraversato tutto il Veneto. Il rischio alluvione, a fine febbraio è stato concreto lungo le sponde del Bacchiglione, da Vicenza lungo tutta la campagna padovana.
Per 48 ore è tornato a materializzarsi lo spettro del novembre 2010, quando i danni furono ben peggiori, un dramma per centinaia di famiglie sfollate in palestre e rifugi di fortuna; decine di zone artigianali sparse sulla pianura veneta con i macchinari inondati; stalle e fattorie sommerse. Se questa volta l’incubo non si è ripresentato è stato certamente (anche) grazie ai lavori compiuti nel decennio che abbiamo alle spalle e la regia è tutta della Giunta Regionale, del presidente Zaia e dell’assessore Bottacin. Il riferimento immediato è ai bacini di laminazione di Caldogno e di viale Diaz (a Vicenza) che hanno impedito al fiume di esondare in città. A Zaia e Bottacin va ascritta anche la vittoria legale conseguita lunedì 4 marzo al Tribunale delle Acque, che ha messo fine a ben otto anni di contenzioso tra Regione (assieme al ministero per l’Ambiente e all’Autorità di bacino per le Alpi orientali) che spalanca le porte alla realizzazione della cassa di espansione sul Piave, alle Grave di Ciano del Montello, alla quale si opponevano i Comuni di Crocetta, Giavera, Montebelluna, Moriago, Nervesa, Pederobba, Vidor e Volpago. Fin qui il lato positivo della vicenda, poi però si affacciano le questioni critiche. Una settimana fa, parte di Vicenza è comunque finita sott’acqua, gli allagamenti ci sono stati a Cervarese Santa Croce, Abano, Teolo, Rovolon, Saccolongo, in parte anche a Selvazzano. Lo senario, in questi casi è sempre lo stesso: garage pieni di fango, danni alle abitazioni e ai beni delle famiglie, aziende bloccate, voragini aperte nelle strade… Le scuole sono rimaste chiuse nel capoluogo berico, l’allerta generale è scoccata, la protezione civile ha fatto gli straordinari. D’altronde l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ce lo ricordava già nel 2021 con il suo rapporto Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio: il 93,9 per cento dei Comuni italiani è a rischio frane, alluvioni o erosione costiera, rendendo così vulnerabili 1,3 milioni di cittadini italiani per le frane e 6,8 milioni per le alluvioni. I casi che hanno colpito la Romagna, la Toscana e le Marche nel corso del solo 2023 sono lì a dimostrarlo e l’anno precedente ha visto finire sott’acqua ancora le Marche (Ancona e Pesaro-Urbino) oltre a Ischia. L’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis) ha presentato lunedì 4 marzo una serie di proposte per un approccio integrato al problema del dissesto idrogeologico. Occorre anzitutto cambiare completamente prospettiva: tra il 2013 e il 2019, in Italia si sono spesi ben 20 miliardi di euro per porre rimedio all’emergenza generata da eventi catastrofici, solo due miliardi per opere in grado di prevenire vittime e danni. Un rapporto di dieci a uno non più accettabile in un Paese consapevole che la sua stupefacente bellezza lo espone anche a una connaturata fragilità. L’Italia necessita di interventi per 26 miliardi di euro per porre in sicurezza almeno le situazioni più delicate e la Presidenza del Consiglio dei ministri dovrebbe avere il coordinamento di tutte le operazioni per realizzare una serie di progetti coerenti alle priorità dei diversi territori. I bacini di laminazione veneti rappresentano di certo un fatto virtuoso, che va in questa direzione. Ma non possono bastare. La nostra grande necessità di incanalare l’acqua e accompagnarla al mare (perdendone molta) nasce dal fatto che il nostro terreno è sempre più impermeabile. Il Veneto è la seconda Regione per consumo di suolo, ben il 12 per cento, e tra 2021 e 2022, nonostante la pandemia, altri 740 ettari sono stati cementificati. Le troppe deroghe alla legge regionale “consumo di suolo zero” sono ancora tutte lì, è il momento di invertire la rotta e permettere al suolo rimasto di respirare, anziché produrre nuove opere per mitigare l’impatto della altre nuove opere che poi richiederanno altre opere…