Adolescenti. Cosa significa inclusione e quali sono i soggetti da includere?
Oggi parliamo molto (forse troppo) dei giovani e poco con i giovani. Questo uno dei tratti più deleteri dell’approccio attuale.
“Inclusione” è da anni la parola chiave della scuola e delle agenzie educative.
Concetto (o meglio “filosofia”) che affonda le sue radici nella Costituzione e fa da sfondo a ogni progetto pedagogico che sia degno di questo nome. Al contempo, posizione spesso assimilata al “buonismo” e considerata “lesiva” dei diritti di tutti quelli che appartengono alla sfera della cosiddetta “normalità”.
Ma cosa vuol dire realmente “includere”? E, soprattutto, quali sono i soggetti da includere?
A scuola la risposta è codificata in mille sigle, che sono poi oggetto di azioni progettuali normate e condivise dalla comunità educante.
I soggetti per eccellenza da includere sono gli alunni disabili, colpiti da patologie invalidanti che condizionano i processi di apprendimento e di maturazione. L’inclusione della disabilità nella scuola italiana ha una tradizione più che decennale. Parte dagli anni Settanta e si è realizzata nel tempo grazie al supporto delle leggi e di molteplici risorse (mai del tutto sufficienti, ma previste).
Poi esiste tutta una pletora di “peculiarità” dell’individuo, a cui la scuola è chiamata a rispondere e a dedicare misure inclusive. Ad esempio, i disturbi dell’apprendimento o i bisogni educativi speciali, che nell’ultimo decennio sono stati al centro dei dibattiti e delle sperimentazioni in campo educativo.
Ciò che, invece, resta sempre più ai margini dell’azione educativa per la sua multiformità, e spesso anche a causa della sua tendenza al mimetismo, è il disagio giovanile. E oggi il disagio diventa sempre più l’urgenza di questa società in crisi.
Quali azioni educative concrete, orientate all’inclusione, operano oggi in reale contrasto col disagio giovanile?
Le iniziative sono molte, per la verità. Si organizzano progetti di prevenzione all’abuso di sostanze, conferenze sul bullismo e cyber bullismo, formazioni all’uso corretto dei social network, percorsi di educazione all’affettività, attività che favoriscono la relazione fra i pari, ecc.
Insomma l’offerta è variegata, ma si lavora molto sugli effetti sul disagio e non adeguatamente sulle cause.
Per indagare le cause e soccorrere queste forme di infelicità adolescenziali si ricorre prevalentemente alla psicologia: sportelli di ascolto nelle scuole, centri di supporto per famiglie e ragazzi, terapie. Ma il processo di “inclusione” non può essere delegato soltanto alla scienza medica, il disagio chiede urgentemente una riflessione approfondita che investa il tessuto sociale complessivo.
Oggi parliamo molto (forse troppo) dei giovani e poco con i giovani. Questo uno dei tratti più deleteri dell’approccio attuale. Il “fenomeno” giovanile esige rispetto e competenza nella trattazione e, invece, spesso diventa bersaglio di critiche preconfezionate e trite.
Il panorama attuale è accelerato ed estremamente mutevole, viviamo in una società complessa e in perenne cambiamento. Gli educatori non possono permettersi il lusso di farsi propugnatori di letture statiche, rigide o, peggio, preconfezionate dell’identità giovanile. C’è, inoltre, una diffusa tendenza a stigmatizzare i comportamenti devianti e a etichettarli con classificazioni usate a sproposito (bullismo, dipendenza, devianza e via dicendo).
Le analisi che investono il mondo giovanile sono prevalentemente orientate alla “negatività”, se non altro nei termini. Si tende a parlare di branco, bamboccioni, ineducazione, vandalismo, ecc.
Soprattutto, si trasferisce la negatività di alcuni comportamenti al giudizio globale dell’individuo, senza offrire occasioni educative finalizzate al recupero.
Ma si valorizza abbastanza la positività dei giovani?
Ecco quindi la risposta alla domanda iniziale: “includere” significa soprattutto “dare valore” alla difformità, nella consapevolezza che per governare il cambiamento che investe oggi la nostra società occorre “accoglierlo”, “comprenderlo” e ricondurlo alle radici identitarie intergenerazionali.
Silvia Rossetti