11 settembre 2001. Bertolotti (Ispi): “Terrorismo piaga globale incontrastata”
L’11 settembre 2001 terroristi islamici dirottarono quattro aerei puntando dritti sulla Casa Bianca, il Pentagono e le Torri gemelle di Manhattan. Fu la più grande strage di civili compiuta su suolo americano: oltre 3mila morti e 6mila feriti. Una data spartiacque della storia contemporanea. Ne abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, analista dell’Ispi, direttore di Start Insight e dello Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo (React)
L’11 settembre 2001 diciannove terroristi islamici dirottarono quattro aerei decollati da Boston, da Newark e da Washington puntando la Casa Bianca, il Pentagono e le Torri gemelle di Manhattan. Tre gli obiettivi raggiunti, solo la Casa Bianca non fu colpita, per la più grande strage di civili su suolo americano: oltre 3mila morti e 6mila feriti. Una ferita ancora aperta nella società americana e sono solo. Una data spartiacque nella storia contemporanea destinata a cambiare il mondo con due guerre innescate da questo attacco: contro l’Afghanistan e contro l’Iraq costate solo agli Usa più di 5mila miliardi di dollari. Venti anni dopo l’Afghanistan è tornato a essere uno scenario di crisi internazionale. Ne abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, analista dell’Ispi, direttore di Start Insight e dell’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo (React).
Cosa è cambiato dopo l’11 settembre?
È cambiata la natura del terrorismo, diventata più eterogenea dal punto di vista territoriale riuscendo a imporre in modo ramificato un marchio del terrore che è in grado di colpire anche a livello locale ottenendo un risultato, dal punto di vista comunicativo, a livello globale. Oltre a una rinata spinta a colpire credo ci sia anche una conferma della volontà di adesione a un jihad senza porre limiti temporali perché il risultato finale sarà quello della vittoria contro l’Occidente, i suoi valori e la democrazia. Contro tutto ciò che non rientra nell’interpretazione data dall’Islam professato dai gruppi jihadisti.
20 anni fa è uscito allo scoperto un nemico fino allora invisibile che ha aperto un fronte di guerra ‘asimmetrica’ e senza limiti che si combatte ancora, basti pensare all’Afghanistan, alla Siria, all’Iraq…
Prima non si poteva parlare di un terrorismo capace di controllare ampi spazi territoriali.
Oggi abbiamo intere aree della Siria, dell’Iraq, dell’Afghanistan, controllate o utilizzate dai gruppi jihadisti o terroristi in maniera incontrastata. Questo rappresenta un grande punto di forza ed è una base dal punto di vista operativo e logistico che rafforza l’ideologia jihadista.
L’attentato alle Torri Gemelle è stato finanziato e preparato con grande meticolosità e determinazione, motivato dal fanatismo religioso. Dopo venti anni, ritiene replicabile un attacco analogo?
La capacità dimostrata da Al Qaeda alle Torri Gemelle di Manhattan e agli altri obiettivi (Pentagono, Casa Bianca, ndr.) sembrerebbe essere venuta meno. Il terrorismo, da un punto di vista di impatto operativo, non ha più ottenuto un risultato come l’11 settembre, che fu reso possibile grazie anche all’effetto sorpresa. Al tempo stesso, però, se prima Al Qaeda contava su delle élite in grado di colpire per trascinare le masse, oggi sono le stesse masse che si sono sollevate, come anche gruppi e singoli soggetti, per attaccare in nome del Jihad, forti di un’esperienza di successo, anche mediatico, quale è stata quella dell’11 settembre 2001.
In questo senso, rispetto a 20 anni fa, i social network stanno giocando un ruolo importante?
Direi un ruolo di primo piano nella comunicazione del terrorismo. I singoli eventi vengono ripresi da centinaia di migliaia di utenti che ne amplificano gli effetti anche quando gli esiti sono fallimentari.
La sollevazione di queste masse, di cui parlava poco fa, è dovuta a fattori di appartenenza religiosa oppure le cause vanno ricercate anche nelle gravi condizioni socio-economiche in cui queste versano al punto che aderire al jihad o a gruppi terroristici può rappresentare una forma di riscatto?
Il malcontento sociale è alla base della maggior parte delle forme di opposizione a un sistema nel quale non ci si riconosce o che si riconosce come nemico o ostacolo al benessere. Sulla base di questa narrativa i gruppi jihadisti hanno costruito la loro forza anche sulla scorta di una comunicazione impattante e capace di coinvolgere il maggior numero di soggetti. Lo abbiamo visto dal 2013 al 2017 quando decine di migliaia di individui sono andati a combattere prima nel cosiddetto Stato Islamico in Siria e in Iraq, e poi senza muoversi dai paesi di provenienza, obiettivi associati al nemico identificato e indicato attraverso gli strumenti di comunicazione. Con effetti importanti: costi più bassi rispetto all’11 settembre, un impatto emotivo maggiore e un elevato numero di soggetti pronti ad immolarsi in nome dello Stato Islamico in operazioni di basso profilo tecnico.
Dopo l’11 settembre la politica è riuscita a fronteggiare la minaccia terroristica e a dotarsi di strumenti in grado di disinnescarla?
Guardando ai risultati ottenuti direi di no.
Il terrorismo è aumentato da quella data ed è diventato una piaga globale incontrastata.
Per ciò che riguarda le misure di contrasto è bene dire che sono aumentati gli strumenti a disposizione delle Forze di sicurezza, di Polizia e di Intelligence. Il contrasto però, è bene ricordarlo, opera solo sull’ultima fase di un fenomeno consolidato. Ciò che è importante è la prevenzione nella quale, invece, siamo piuttosto indietro perché abbiamo dimostrato di non essere in grado di riuscire a comprendere le dinamiche sociali che hanno provocato la nascita e la diffusione del terrorismo. Guardando anche all’interno dei nostri confini notiamo che ci sono soggetti che non si riconoscono nel nostro modello di vita e che reagiscono in maniera violenta.
Cosa ha insegnato l’11 settembre all’Occidente?
Credo si sia chiuso un ciclo di guerra combattuta anche a livello di opinione pubblica e di narrativa che ha insistito molto nella guerra al terrore che però non è riuscito a debellare. Le cancellerie dei Paesi che hanno contribuito allo sforzo in Afghanistan, in Iraq e Siria, sono più consapevoli del fatto di poter fare poco in termini di ‘intervento diretto’, con l’uso della forza, per contenere il terrorismo. Interventi diretti che hanno avuto effetti opposti a quelli sperati.
Se la sola risposta militare ha mostrato i suoi limiti, quali altre azioni possono essere messe in campo per contenere il terrorismo? Forse meno armi e più cooperazione?
Questa è la speranza di tutti.
Nel suo primo discorso sul ritiro dall’Afghanistan il presidente Usa Biden, ‘sconfessando’ in un certo senso quello che le amministrazioni Usa precedenti e la Nato avevano portato avanti negli ultimi 20 anni, ha di fatto sostenuto che lo strumento militare non può essere la soluzione per pacificare un Paese o per aiutarlo ad uscire da una situazione di crisi. Il problema è che oggi abbiamo dottrine militari adottate dalla Nato, dagli Usa e da singoli Paesi che discendono direttamente dalla dottrina contro-insurrezionale che è anche tecnicamente detta Sfa, Security force assistance, che offre assistenza alle forze di sicurezza locali concentrando il grosso dello sforzo sulla costruzione di uno strumento militare e di polizia idoneo a reprimere le forze di opposizione armata. Credo che bisognerebbe riflettere sull’opportunità di rivedere questo approccio dottrinale poiché basato su esperienze fallimentari.