Una storia senza più senso. E un no che salva. Le narrazioni dell’Olocausto
Una storia senza più senso. E un no che salva. Le narrazioni dell’Olocausto
Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani.
A volte ciò che sembra una perdita può salvare. Nel racconto della vita, nella vita stessa. Anche quando si parla di un olocausto che lascia senza parole. Accade rileggendo Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, scritto nel 1962: una storia che sarà conosciuta, come capita sovente, anche grazie al film (lo scrittore rinunciò alla sceneggiatura non soddisfatto della trasposizione cinematografica) diretto da Vittorio De Sica otto anni dopo.
Non a caso il libro inizia con una visita ad una necropoli etrusca anni dopo la fine della tragedia senza senso, con una bambina che pone inquiete domande sulla vita e sulla morte e sul narratore che inizia a ricordare altre tombe e altri destini senza neanche una tomba dove riposare in pace.
Bassani si è ispirato alla tragica storia di Silvio Finzi-Magrini, membro della agiata borghesia ebraica di Ferrara e scomparso in un lager tedesco, nel romanzo Ermanno Finzi-Contini, padre di Micòl, la ragazza amata dal protagonista. Una storia che potrebbe diventare d’amore, con due apparentemente eguali, che proprio per essere troppo simili, non sembrano avere alcun futuro. È lei a comunicare la sentenza che cambierà per sempre la vita affettiva del protagonista, e paradossalmente lo salverà: in amore non può esserci pace, ma solo lotta: “l’amore era roba per gente decisa a sopraffarsi a vicenda”, sentenzia con apparente freddezza Micòl.
Qui emerge un importante motivo: la fusione tra memoria personale, desiderio, realtà storica: la proiezione mitica della Micòl come custode del magico giardino dell’infanzia Come ha notato bene la studiosa Marilyn Schneider, quel giardino è anche richiamo all’Eden perduto, luogo destinato all’interdizione in vita.
Ma è soprattutto il motivo storico che ci fa porre Il giardino dei Finzi-Contini tra i libri che aiutano durante l’attraversamento della notte dello spirito, del timore e della malattia: il no di Micòl permette al protagonista di avviarsi nel reale, con il ritorno al mondo in cui accadeva il macello della caccia al diverso per motivi razziali. Il protagonista è allontanato dal giardino, costretto a riprendere i contatti con il mondo. E nello stesso tempo è salvato da quel no, perché, impedendogli la frequentazione di casa Finzi-Contini, gli impedisce di essere deportato e sparire in un campo di sterminio come accade a tutta la famiglia, Micòl compresa. È come se l’essere tanto desiderato abbia voluto, inconsapevolmente, graziare il suo “fedele”: il dono prezioso della vita attraverso il dolore della morte simbolica e del cammino di rinascita. In una medesima narrazione, amore, morte, simboli sotterranei e celesti, storia e cronaca, massacro senza senso si intrecciano.
Come si vede, regno della morte sia all’inizio – con la visita alla necropoli etrusca – che alla fine, con la deportazione della fanciulla tanto amata e divenuta sogno da cui svegliarsi, finalmente, per intraprendere il cammino alla luce della storia. E per sentire nella profondità inaccessibile dell’essere che quello che chiamiamo dolore per un no può rivelarsi un modo per indicarci una strada o, come nel caso di Micòl, per permetterci di uscire e poter tornare a casa quando è ancora sereno e la notte non è ancora arrivata a spegnere il senso.