Un mondo nuovo. Ci sono azioni della nostra vita, del nostro vivere quotidiano, che non potremo più fare come prima
Nasceranno nuovi mestieri e professioni, ma molti tramonteranno repentinamente se non definitivamente.
Parliamoci chiaro: ci sono delle cose, delle azioni della nostra vita, del nostro vivere quotidiano, che non potremo più fare come prima. E alcune non potremo più farle proprio. Perché se il contagio presuppone il contatto – associato alla moltitudine e all’igiene non controllata – non esiste protocollo al mondo che permetta a 200mila persone di assieparsi davanti ad un palco a sentire la rockstar preferita. Tanto per dire.
Ma la faccenda è molto più ampia. Come si comporteranno i grandi centri commerciali che proprio sul numero di visitatori e sulla ressa campano? Come faranno quei franchising che offrono migliaia di vestiti (o mobili) a basso prezzo mescolati alla rinfusa tra calche umane e camerini super affollati? Come, semplicemente, provarsi un maglione e poi restituirlo perché non piace o perché troppo largo?
E i banconi dei bar, affollati alle 8 come stazioni del metro (appunto…) per un caffè con cornetto sanificato e umanamente distanziato, e ri-sanificato all’uscita del cliente? Boh.
I trasporti pubblici sono poi in croce: treni, aerei, la micidiale metropolitana ma anche bus e vagoni normalmente stipati di pendolari tanto da ricordare più Calcutta che il distanziamento sociale anti-Covid. O si quintuplicano le corse – ma bisogna avere i mezzi, e poi i costi? – o si quintuplica il prezzo dei biglietti. Allora tutti in auto, ma non assieme ad altri: la tangenziale di Milano o il Grande raccordo anulare di Roma – che un venerdì pomeriggio qualsiasi erano un incubo – vedranno le auto una sopra l’altra?
Forse ci ispirerà l’igiene degli hotel 5 stelle, un po’ meno quella di campeggi e appartamenti affittati a uso turistico; forse non penseremo al cuoco che, al ristorante, sta maneggiando il cibo che mangeremo. Anche se in certi localini “etnici” o laddove fino a ieri cenavi con il gomito del vicino piantato sul fianco, qualche pensiero infausto sorgerà ai più.
Le gite sociali in pullman? I grest? La partita allo stadio? La ressa nei musei più gettonati? Sciocchezze rispetto alla scuola, dove nemmeno il ministro dell’Istruzione sa che pesci pigliare (purtroppo). Certo, le aule con 30 studenti assiepati in 60 metri quadrati (cioè la normalità fino a ieri) dovrebbero evolversi in ben altro, se non vogliamo ritrovarci in un amen con il virus dentro la cartella.
E i carabinieri? Come arresteranno i malfattori, con le manette virtuali lanciate via wi-fi? Dovranno farsi il tampone dopo ogni contatto fisico?
Nasceranno nuovi mestieri e professioni (le cooperative di sanificazione ambienti e oggetti, l’esperto di norme sulla salute nei luoghi di lavoro, le fabbriche di guanti e mascherine e gel disinfettante), ma molti tramonteranno repentinamente se non definitivamente. E il più a rischio è il commercio: dai venditori di gondole in una Venezia povera di turisti cinesi a quei negozi che, se devono accogliere un cliente ogni mezz’ora, hanno già il destino segnato. Lo shop on line trionferà, ma sai che godimento provarsi le scarpe al computer. Vorremo tutti il made in Italy, ma chi vorrà il made in Italy fuori dai nostri confini?
Ecco perché desta enorme preoccupazione quel 10% circa di Pil che calerà quest’anno. Risalirà con molta lentezza, quasi sicuramente, lasciando uno strascico di chiusure e di disoccupazione. Se l’export langue e già prima i consumi interni erano freddi, c’è poco da sognare. Tanto più che, in momenti di enormi difficoltà collettive, si tende a spendere ancor di meno. Di doman non v’è certezza.
Speriamo in bene, in fondo basterebbe una cura più efficace per eliminare molti problemi. Quindi, per non rovinare questo finale afflato di positività, non parliamo di banche…