Transizione energetica e rivalità geostrategiche: dietro le quinte della guerra in Ucraina
Si dice che il conflitto di Ucraina ha intensificato l’impegno sulle rinnovabili. Eppure alla Cop27 di Sharm el-Sheikh sono emersi dati controversi.
L’intervento di von der Leyen al Collegio di Bruges della settimana scorsa rivela molto più di quanto esprime. Già a marzo, nel discorso sullo stato dell’Unione, Biden aveva presentato la transizione energetica come l’opportunità per riportare l’economia Usa alla guida del mondo. Ma ora a preoccupare la Ue è l’Inflaction Reduction Act varato da Washington, nell’ambito di un portentoso programma da 370 mld di dollari per trasformare il sistema industriale omologandolo all’uso delle energie verdi. La probabile trasmigrazione degli investimenti nelle rinnovabili, attratti da maggiori profitti Oltreoceano, ha spinto la presidente della Commissione ad auspicare nuove convergenze transatlantiche.
L’allarme segnala che la “rivoluzione verde” è un vettore primario della competizione globale, confermando la costante della creative destruction capitalistica applicata alla rivalità tra potenze: il tentativo periodico delle egemonie di allungare il passo rivoluzionando l’economia-mondo per marginalizzare le risorse strategiche dei concorrenti. L’elemento offre una chiave aggiuntiva per decifrare gli odierni eventi di guerra, discussa nel recente convegno della Itinerant Peace School tenuto nell’Università Lateranense dal Ciclo di studi in Scienze della Pace e dalla Fondazione Leaders pour la Paix.
Si dice che il conflitto di Ucraina ha intensificato l’impegno sulle rinnovabili. Eppure alla Cop27 di Sharm el-Sheikh sono emersi dati controversi: la corsa al gnl rischia di far sforare la soglia dei +1,5 gradi del riscaldamento rispetto ai livelli preindustriali; l’Unione africana ha dichiarato di voler cavalcare il frangente intensificando l’estrazione delle fossili; il volume degli investimenti occidentali negli idrocarburi del Sud del mondo cresce costantemente. Soprattutto, rileva la fame di gas dei Paesi capofila nella “svolta verde”. Ma il paradosso è solo apparente. Il gas naturale è, tra i combustibili, il più adatto ad accompagnare la transizione: con la minore impronta carbonica, si presta alle esigenze di approvvigionamento e si confà ai picchi produttivi in un’arena concorrenziale ove chi rallenta è perduto. E chi lo esporta intercetta l’altrui fabbisogno, cercando di massimizzare il potere conferito dalla risorsa. Tanto più se essa fornisce una leva strategica nelle rivalità geopolitiche.
Il caso della Russia è esemplare. Da quando, alla Conferenza di Monaco del 2007, Putin dichiarò di voler adoperarsi per un mondo multipolare, notiamo, cartine alla mano, la sequenza di interventi in Georgia, Crimea, Siria e (con funzioni di peace-keeping) Nagorno-Karabakh: a disegnare un anello che, nella teoria geopolitica, individua lo Shatterbelt: crocevia nevralgico per la competizione nel blocco eurafrasiatico. La presenza in esso consente proiezioni su Suez e quindi sul Golfo Persico, “Medioceano” tra Atlantico e Pacifico, ma anche sul Mediterraneo orientale, i cui fondali, negli ultimi due decenni, si sono rivelati straordinariamente ricchi di gas. Ecco dunque l’attenzione di Mosca per l’area, coperta dall’ombrello geostrategico lungo l’asse che congiunge le basi aeromissilistiche in Siria, Crimea e Kaliningrad e dall’accesso al Mediterraneo della flotta del Mar Nero.
Sul versante opposto gli Usa, intenti a disimpegnarsi dall’oneroso presidio mediterraneo ma senza liberare il passo alle ambizioni russe. Di qui il sostegno alle forze anti-Assad, le transazioni per convincere Erdogan a sbarrare Bosforo e Dardanelli alla marina russa e i tentativi di atlantizzare, per il tramite ucraino, il Mar Nero, ove imbottigliare le navi di Mosca. E ancora la promozione nel 2019 dell’Eastern Mediterranean Gas Forum, per polarizzare in funzione antirussa le scelte di campo dei Paesi membri (Cipro, Egitto, Giordania, Israele, Autorità palestinese, Grecia, Italia e Francia) opzionati in vista di un mercato regionale del gas attorno al progetto dell’EastMed Pipeline.
Il tutto in linea con le rappresaglie sanzionatorie del Congresso Usa sugli investimenti nei NordStream e il disappunto per il SouthStream, poi accantonato dalla Russia per le divergenze con Bruxelles e sostituito con il TurkStream lungo i fondali del Mar Nero. Queste sono state le due rotte messe in cantiere dal Cremlino per: a) aggirare il transito ucraino dell’oro blu (da dismettere entro il 2019 ma con proroga al 2024) e quindi sottrarre il 60% dei flussi europei di Gazprom ai condizionamenti di Washington su Kiev; b) saldare le relazioni con la locomotiva tedesca dell’Europa intenta a decarbonizzarsi e pertanto più gasdipendente; c) promuovere la Turchia a diaframma energetico, in cambio di una concorde proiezione marittima verso sud.
Il resto è cronaca di schermaglie sugli Accordi di Minsk, degenerate sino al rosso sangue della guerra in atto: precipitato ben poco verde di rivalità egemoniche su cui occorre allargare consapevolmente lo sguardo. Per affrontare un problema occorre anzitutto recepirne i dati, esercizio nella fattispecie necessario all’opinione pubblica per segnalare tempestivamente ogni strumentalizzazione competitiva foriera di consimili drammi. Di certo più utile e onesto che stracciarsi le vesti di fronte al fatto compiuto.
Giuseppe Casale*
*Pontificia Università Lateranense