Taglio dei parlamentari. Baggio (Sophia): “Frutto di una rivolta dell’opinione pubblica verso una politica considerata corrotta”
Una sforbiciata alla “casta”. Con il via libera a larga maggioranza ottenuto nel voto della Camera dei deputati, i parlamentari italiani eletti scendono dagli attuali 945 a 600 (400 deputati e 200 senatori). La riforma costituzionale, che prima di entrare in vigore potrebbe essere sottoposta a referendum confermativo, gode di un forte consenso popolare generato da un rifiuto verso la classe politica ritenuta inefficace e autoreferenziale. Ne abbiamo parlato con il professor Baggio, dell’Istituto universitario “Sophia”
“Il provvedimento relativo al taglio dei parlamentari – votato obtorto collo da alcune forze politiche – non è un danno enorme in sé. Ma avere meno collegi elettorali e molto più grandi rispetto agli attuali crea forti ostacoli alla rappresentatività, cioè alla possibilità per i cittadini di sentirsi rappresentati. E se avanzano idee che vogliono una limitazione della libertà del parlamentare, superando il “senza vincolo di mandato” e facendo diventare il parlamentare un portavoce e quindi un delegato privato, allora l’antipolitica uccide la politica”. Ne è convinto il professor Antonio Maria Baggio, docente di Filosofia politica all’Istituto universitario “Sophia” di Loppiano, commentando l’approvazione della riforma costituzionale relativa al taglio del numero di parlamentari.
Professore, è la vittoria dell’antipolitica sulla politica?
La riduzione del numero dei parlamentari è sempre stata una bandiera del Movimento 5 Stelle e ha trovato un forte consenso popolare perché nasce da una rivolta dell’opinione pubblica nei confronti dei parlamentari genericamente intesi. Una rivolta che ha delle spiegazioni.
Quali?
Un senso di rifiuto generato dall’impressione di corruzione generalizzata – e purtroppo i casi ci sono stati e anche gravi – a cui si aggiunge la perdita di ruolo dei parlamentari per via di una politica personalistica e personalizzata nella quale sembrava che a decidere fosse soltanto il capo del partito e i parlamentari fossero meri esecutori.
Secondo lei, quale potrà essere l’impatto di questa riforma?
Credo che non raggiungerà gli effetti che vengono dichiarati in termini di risparmio, che è ridicolo in confronto alle cifre di cui ci sarebbe bisogno. E le cause della crisi dei rappresentanti politici non vengono affatto toccate dal ridurre il loro numero.
La classe politica negli ultimi anni è stata bollata come “casta”. Il taglio dei parlamentari non rafforza questo giudizio?
L’osservazione sembra paradossale ma la condivido. Gli attuali parlamentari dei Cinquestelle hanno beneficiato di una legge che ha permesso loro di poter entrare in Parlamento: quello che hanno portato avanti e adesso ottenuto con il consenso di quasi tutti – per via di un’opinione pubblica a favore – sono le condizioni per impedire questa possibilità di cambio della rappresentanza, di rinnovamento profondo dei membri di Camera e Senato.
La casta c’era per via dell’inefficacia di una classe politica che negli ultimi 20 anni almeno invece di risolvere i problemi sembrava diventata lei stessa il problema.
Cosa non ha funzionato nella classe politica italiana negli ultimi decenni?
Nella mancanza di grandi progetti di trasformazione, a differenza di quello che hanno fatto gli altri Paesi, i nostri politici a volte si sono rivelati un ostacolo perché non hanno trovato le soluzioni, quando la politica è fatta per prendere decisioni. Sono diventati una “casta” perché hanno provveduto in buona parte soltanto ad autotutelarsi. Ma questo non è legato al numero dei parlamentari, bensì a leggi che permettevano la cooptazione dei parlamentari, persone scelte dalle dirigenze dei partiti. E questa è un’aberrazione, perché un ristretto numero di privati cittadini a capo dei partiti ha determinato e può determinate la composizione del potere legislativo di un intero Paese.
Con la riduzione del numero dei parlamentari si va verso un indebolimento della democrazia rappresentativa?
La rappresentanza politica era già fragile di suo, per problemi di cooptazione, di corruzione, di mancanza di programmi, di impreparazione. Una volta si arrivava alla Camera o al Senato come coronamento di una lunga preparazione e dell’accumulo di competenze, ma da un po’ non è più così. A questo si è aggiunta una concezione, che è stata proposta principalmente dal Movimento 5 Stelle, per la quale non si vede il parlamentare come rappresentate ma come portavoce.
Ci aiuta a capirne gli effetti?
Ci abbiamo messo millenni per arrivare ad elaborare l’idea di un cittadino che diventa l’espressione dell’unità di tutto il popolo, perché il parlamentare non rappresenta solo chi l’ha votato ma l’intera Nazione. Questo significa che nella cittadinanza – che ciascuno di noi ha – c’è il seme che permette di rappresentare tutti quanti. Questa è una cosa enorme, un principio straordinario. Nella concezione che si è imposta ultimamente, il rappresentante è semplicemente un portavoce, un semplice esecutore che applica la decisione che è stata presa da una parte esigua del corpo elettorale. Questo viene chiamato “volontà generale”, ma non c’è nessuna dimostrazione che sia veramente la volontà generale quella di un certo numero di membri di un partito che danno indicazioni di votare in un modo o in un altro.
La rappresentanza è nata proprio per evitare che ci fosse una decisione diretta da parte dei cittadini e ci fosse una decisione politica meditata, filtrata; per evitare decisioni immediate, suggerite più dallo stomaco che dalla ragione.
Il lavoro di mediazione del rappresentante è un lavoro di perfezionamento della decisione politica. O almeno così dovrebbe essere.
Si rischiano altre derive?
Andando ai testi di Rousseau, la “volontà generale” che si forma impedisce qualunque opposizione. Se io non sono d’accordo con l’idea che si è formata e che ha preso la maggioranza, non ho diritto ad oppormi. Anzi, devo convincermi che abbiano veramente ragione gli altri. È nel concetto stesso di “volontà generale” come Rousseau lo elabora e come sembra lo interpretino i nostri contemporanei che esiste il seme dell’antidemocrazia, dell’impossibilità delle differenze. I fenomeni di espulsione visti di recente, i “chi non è d’accordo se ne va”… Quando mai? Tutto si può dire dei grandi partiti di massa del Secondo dopo guerra tranne che non parlassero al loro interno, c’è sempre stato dibattito.
Come per altre riforme costituzionali potrebbe essere richiesto un referendum confermativo…
È ciò di cui si sta discutendo anche in queste ore a seguito dell’approvazione parlamentare. Ma avremmo bisogno di un movimento di riflessione politica, non partitico, una proposta di idee per vedere l’insieme. Oggi si discute di riforme costituzionali per adeguare al fatto compiuto del taglio dei parlamentari, ma bisognava pensarci prima. Tutte le varie commissioni create per una revisione generale della Costituzione hanno fallito, altre riforme sono state fatte a colpi di mano e di maggioranza ed è stata bocciata anche la riforma con l’ultimo referendum che ha segnato il destino politico di Renzi. Ci vuole una maggiore serietà nel trattare la Costituzione, che non è un tornare indietro.
Bisogna invece capire come fare verso il futuro perché altrimenti non riusciamo a spiccare il volo come Paese. Spero che ce ne rendiamo contro prima aggravi la situazione in termini di crescita economica e di fiducia nei nostri confronti. Bisogna mettere mano a riforme profonde, lavorare nella prospettiva dei prossimi 20 anni.
Alberto Baviera