Questione salariale: si riparte da zero
Solo nell’anno in corso l’inflazione ha determinato per i salari un calo in termini reali del 6%, il doppio rispetto alla media dell’Unione europea.
In Italia esiste una grande questione salariale. Solo nell’anno in corso l’inflazione ha determinato per i salari un calo in termini reali del 6%, il doppio rispetto alla media dell’Unione europea. Ma il boom dell’aumento dei prezzi investe una situazione di base che vede l’Italia in netto ritardo da molti anni. I salari sono più bassi (sempre in termini reali) del 12% rispetto al 2008, un dato che ci colloca all’ultimo posto tra i Paesi Ocse, quelli più sviluppati. Che il problema sia strutturale lo dimostra in modo eclatante il fatto che siamo l’unico tra i membri della Ue che dal 1990 a oggi registri un dato decrescente.
Bisogna tenere presente questo quadro di fondo quando si discute dell’introduzione del salario minimo, di una soglia di paga oraria al di sotto della quale non è lecito andare. Un tema strettamente intrecciato con quello del “lavoro povero”, un fenomeno che si è andato progressivamente allargando con effetti sociali devastanti. In barba al dettato costituzionale secondo cui (art.36) “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera dignitosa”. La questione è stata recentemente oggetto di un dibattitto alla Camera in occasione del voto sulle mozioni presentate dai diversi gruppi. È stata ovviamente approvata quella sottoscritta dai partiti di maggioranza in cui, nello specifico, si impegna il governo a non percorrere la strada del salario minimo e ad utilizzare altri strumenti per tutelare i lavoratori. Dalle opposizioni sono arrivate critiche anche severe, ma sull’argomento le opinioni, dentro e fuori il Parlamento, sono molto articolate. Per alcuni il salario minimo deciso per legge potrebbe essere inutile e persino dannoso, se non ben congegnato. Nello stesso sindacato convivono storicamente posizioni diversificate, con la Cisl convinta sostenitrice dell’importanza della contrattazione collettiva come mezzo più efficace e completo per salvaguardare i diritti di chi lavora. Il punto è che non si partiva da zero. C’era stato infatti un lungo confronto tra il precedente governo e le parti sociali, in parallelo alla discussione e al varo di una direttiva in sede europea, che aveva portato a un accordo ragionevole ed equilibrato, coerente con la significativa tradizione italiana della contrattazione collettiva. In buona sostanza si trattava di questo: estendere a tutti i lavoratori i minimi previsti dai contratti nazionali e, soltanto per i lavoratori non coperti da questi ultimi, prevedere un salario minimo orario comprensivo di tutte le voci. Ma la maggioranza che sostiene l’attuale governo ha deciso diversamente. E ora? La stessa Cisl, per bocca del segretario confederale Giulio Romani, ha giudicato “paradossale” che “dopo mesi di proficuo lavoro anziché capitalizzarne gli esiti si ricominci da zero il dibattito”. Si vedrà nelle prossime settimane se sarà possibile recuperare almeno lo spirito dell’accordo che era stato raggiunto.