Precari e poveri. Una riflessione a partire dal Rapporto sulla precarietà del lavoro pubblicato questa settimana dall'Inapp
Il rapporto osserva che l’11,3% degli occupati in Italia svolge un’attività che non è sufficiente a garantire un reddito dignitoso. Questo significa che una quota dei lavoratori è a rischio povertà.
Instabilità e vulnerabilità economica sono due condizioni che caratterizzano una larga fetta del mondo del lavoro italiano e rivelano la debolezza dell’offerta di prospettive professionali, oltre che l’urgenza di consolidare le misure a sostegno dei più fragili che vivono in un costante stato di incertezza.
I dati presentati dal Rapporto 2022 dell’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) segnalano che si è aperta una “trappola della precarietà e dei bassi salari” in cui cadono sempre più spesso donne, giovani, lavoratori poco qualificati.
Dopo il periodo di stallo provocato dalla pandemia i problemi strutturali del mercato del lavoro italiano sono tornati a emergere (e a emergere in modo più evidente di prima). Sebbene l’occupazione sia tornata a crescere, nell’anno trascorso il 68,9% dei nuovi contratti stipulati sono a tempo determinato. Purtroppo, nel rapporto si certifica la permanenza dello stato di precarietà: infatti di quei contratti stipulati solo una parte entro 3 anni si trasforma in occupazione stabile (la percentuale oscilla tra il 35% e il 40% negli anni migliori). Gli altri continuano a rinnovare contratti a tempo (30%-40%), sono in cerca di nuova occupazione (tra il 16% e il 18%) oppure hanno rinunciato a cercare (17%).
Ma la precarietà si incontra con una scarsa remunerazione dei lavori. Il rapporto osserva che l’11,3% degli occupati in Italia svolge un’attività che non è sufficiente a garantire un reddito dignitoso. Questo significa che una quota dei lavoratori è a rischio povertà: non è in grado di affrontare una spesa imprevista, a volte non riesce ad arrivare a fine mese con il proprio salario. La situazione non vede spazi di miglioramento. Per ora l’Italia è l’unico paese dell’area Ocse che ha registrato un calo dei salari, negli ultimi 30 anni di circa il 2,9%, ma nell’ultimo decennio la diminuzione è stata ancora più ampia (- 8,9%). Significa che la maggioranza delle persone che lavorano ha visto progressivamente diminuire la sua capacità di acquisto e il proprio benessere economico. Un ultimo elemento che completa il quadro evidenzia un altro 11,3% di lavoratori, collocato in part-time involontario. Un indicatore che mostra la difficoltà delle imprese a mantenere la loro posizione sul mercato e di conseguenza garantire lavoro ai propri dipendenti.
La combinazione di questi fattori chiede di sostenere politiche per i lavoratori nella consapevolezza di vivere in un mondo produttivo pieno di instabilità. La precarietà lavorativa chiede ammortizzatori simili a un reddito di cittadinanza, quanto la diffusione di bassi redditi interrogano sulla possibilità/opportunità di introdurre un salario minimo ad esempio. Dall’altro lato occorrerà una politica industriale che possa appoggiare e indirizzare le strategie di imprese che a volte sembrano avere unicamente l’ambizione di sopravvivere.