Parole, parole, parole. Il continuo pasticcio per cercare fondi e far finta di tagliare tasse
Se sta venendo a mancare una piattaforma politica di peso (seria, credibile, di prospettiva) nella vita dei partiti, di tutti i partiti, allora si tira a campare.
Le parole, ormai, sono tutto. Se un giocatore di calcio fa una brutta stagione o si rivela un brocco, non viene venduto per quello, ma perché “non fa più parte del progetto”. Se un governo non riesce ad abbassare la pressione fiscale, si parla di clausole di salvaguardia e di “sterilizzazione” dell’Iva come fossero un taglio delle tasse. No, le tasse non si muovono di un centimetro. Semplicemente, si è scelto di non aumentarle ancora. Se invece se ne introducono di nuove, si parla di un loro valore etico, di una funzione maieutica: stimolare comportamenti virtuosi. Quindi se la bottiglia d’acqua in plastica costerà di più causa tasse, io acquisterò la bottiglia di… carta. Quindi si aumentano le tasse per incassarne di meno, grazie ai “comportamenti virtuosi” innescati. O no?
L’importante è darla da bere, come ben sa il nostro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che racconta in ogni dove di “grandi investimenti” per rilanciare l’economia; solo che questi non risultano da nessuna parte nella legge di bilancio. O i 121 miliardi di euro “stanziati” appunto per le grandi opere – parola di ministro Teresa Bellanova – come se questi soldi ci fossero veramente, chiusi in qualche cassetto dei “palazzi” e nessuno che li sappia spendere! Capite: ci si scanna per reperire da qualche angolo delle nostre esauste casse mezzo miliardo di euro, mentre ce ne sarebbero 121 lì, e nessuno ne approfitta!
Ma se anche si spende meno di quel che si era preventivato, o da qualche parte arriva un’entrata non prevista, ecco: non c’è un disavanzo da utilizzare per scalfire la montagna del debito pubblico ma un “tesoretto” ovviamente a disposizione per ulteriori spese. Spese, non investimenti.
È tutto così, un proclamare omettendo, un inventare a volte di sana pianta: come quando si disse – un anno fa per bocca del precedente governo – che ogni prepensionato con quota 100 fuoriuscito dalle grandi aziende partecipate dallo Stato, avrebbe innescato tre nuove assunzioni. Chi lo diceva? Il governo, non certo le aziende. È successo così? Nemmeno per sogno, e non si capisce nemmeno come sarebbe stato possibile. Il rapporto è in realtà sostanzialmente inverso: tre pensionati, un nuovo assunto. Nel migliore dei casi. Soldi regalati in pensioni che non troveranno coperture da nuovi contributi. Ma non era una regalìa: era una “misura per rilanciare l’economia”.
Se sta venendo a mancare una piattaforma politica di peso (seria, credibile, di prospettiva) nella vita dei partiti, di tutti i partiti, allora si tira a campare e si chiede pubblicamente ai ministri se hanno una vaga idea da tirar fuori su come salvare l’Ilva – e immaginiamo le competenze siderurgiche dei titolari dei dicasteri della Cultura o della Salute. O si delega a terzi (in questo caso alla magistratura) una politica industriale che non possiede né chi governa, né la magistratura. Che a sua volta intima ad Arcelor Mittal di chiudere tutto, e da altra procura di tenere tutto acceso. Altrimenti guai sia nel primo che nel secondo caso…
E in questo quaquaraquà di parole, lo Stato non riesce nemmeno a chiudere – in dodici anni – le sedi della “compagnia di bandiera” Alitalia in Paesi in cui Alitalia non vola più da anni. Un’azienda che in teoria sarebbe uguale a tutte le altre che operano in Italia, salvo il fatto che per essa abbiamo già buttato dal finestrino un miliardo e mezzo di euro. Poi, in silenzio e di sottecchi, si taglia il micro-fondo destinato alle adozioni…