Le infrastrutture del lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale
È un salto di qualità quello che serve al Paese per il futuro del lavoro. Una rinnovata cultura del lavoro, dell’impresa e della democrazia che affondi le sue radici in quei valori di fondo della nostra società e in quella sapienza cristiana e civile che è viva in molte anime del mondo imprenditoriale e del terzo settore. Essa rappresenta, anche per il lavoro 4.0, un fondamento solido, generativo e capace di ripristinare quegli anticorpi sociali che sembrano essere sin qui venuti meno nella politica come nell’economia del profitto e dello scarto
Negli ultimi dodici mesi sono state spese molte parole sul lavoro. Sia su quello non c’è, e che per questo richiede un sistema di welfare adeguato ai bisogni di coloro che non riescono a trovare un impiego o che sono usciti dalle dinamiche del mercato del lavoro; sia su quello che c’è, ma che si scontra con le problematiche di un’economia globale e con l’incalzare dell’evoluzione tecnologica, che genera opportunità ma anche minacce.
I problemi del mondo del lavoro sono certamente tanti e possono essere messi a fuoco partendo da diversi punti di vista. La prospettiva suggerita da Papa Francesco e rilanciata dai Vescovi italiani nel messaggio per la festa del 1° maggio, è quella del lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale che vede nel lavoro un’opportunità per affermare la dignità della persona e la sua capacità di collaborare con l’opera creativa di Dio. Questo orizzonte esprime, a sua volta, una cultura del lavoro che affonda le sue radici nella visione antropologica espressa dalla dottrina sociale della Chiesa e che vede l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, continuatore proprio attraverso il lavoro della creazione.
L’altissimo valore del lavoro umano che ritroviamo nel pensiero sociale cristiano, capace di proiettarlo sul piano soprannaturale e relazionale della santificazione del lavoro, di se stessi e degli altri attraverso il lavoro, si contrappone alla superficialità con cui solitamente si dibatte dei problemi del mondo del lavoro, dei lavoratori e di coloro che non riescono più a stare al passo con le nuove sfide della globalizzazione e della tecnologia. Essa rappresenta una ferita profonda che sta lacerando la società italiana, condannandola ad una stagione di sfiducia e di conflitto sociale che il Paese non solo non merita, ma che potrebbe evitare se solo recuperasse una cultura del lavoro realmente al servizio dell’uomo, esprimendo una visione coerente in grado di guardare al cuore dei problemi piuttosto che alla protezione di qualche rendita di posizione, coinvolgendo settore pubblico, imprese e terzo settore in un grande piano di sblocco della società che veda protagonista il ceto medio.
Gli strumenti sin qui messi in campo dagli ultimi esecutivi – dal reddito di inclusione al reddito di cittadinanza, passando per quota cento e per i famosi 80 euro – non sono di per sé sbagliati (ed in alcuni casi hanno innegabilmente alleviato le difficoltà di molte famiglie) ma certo si sono mostrati deboli sul fronte della crescita. Essi scontano obiettivi discutibili, ispirati da un malsano spirito di autoconservazione della classe dirigente che si alimenta di strabismo politico, di un’elevata conflittualità e invidia sociale e della ricerca del consenso attraverso ricette facili e strumentalizzazioni. In un contesto sociale così frammentato, caratterizzato dalla presenza di interessi configgenti, ciò determina una palude che alimenta paura, conflitto e sfiducia, dalla quale non sembra esserci via d’uscita se non per pochi.
L’ascensore sociale è fermo e con esso l’intera società italiana, sempre più rancorosa e chiusa in se stessa. Il futuro del lavoro si gioca invece, come ci ricordano i Vescovi italiani, sulla capacità “di superare la carestia di speranza, puntando su fiducia, accoglienza ed innovazione, […] comprendendo che l’altro non è colui che mi contende una ricchezza data ma è un dono e un’occasione per costruire una “torta” più grande”.
Le principali infrastrutture per liberare il ceto medio dalla palude di una società immobile, favorendo nello stesso tempo un rinascimento di quelle virtù borghesi senza le quali né il mercato, né lo Stato possono adeguatamente funzionare, sono le imprese, il terzo settore e le famiglie.
Le imprese, oltre che capaci di competere sui mercati, attirando capitali e investimenti, promuovendo innovazione e ricerca, devono tornare ad essere comunità, luogo di incontro, conflitto e sintesi di interessi diversi, capaci di convergere verso un obiettivo comune, generando coesione e inclusione. Il terzo settore ha, invece, il duplice compito di essere la scuola di umanità e di servizio alla persona del Paese, il pilastro – come l’ha definito Papa Francesco – del saper donare, del voler costruire e dell’educare; e, dall’altro, una fondamentale infrastruttura della solidarietà, capace di essere il terreno sul quale lo sviluppo economico e sociale può realmente essere per l’uomo. Le famiglie, infine, rappresentano l’insostituibile e fondamentale cellula della società: prima scuola di amore e di gratuità. Ad esse occorre guardare sia come attore essenziale del welfare, in un contesto sempre più complesso, caratterizzato da distanze sempre maggiori, difficoltà economiche e legami sempre più incerti e instabili; sia come alleato per un grande piano di investimento sul capitale umano del Paese che punti sul riallineamento competitivo delle competenze dei nostri giovani, sulla formazione terziaria professionalizzante e sul rilancio di una cultura umanistica capace di sviluppare senso critico e capacità di adattamento alle sfide dell’economia globale e tecnologica.
Sulla politica incombe, invece, la responsabilità di liberare le energie del Paese per farle correre lungo queste tre infrastrutture del lavoro: (i) non disperdendo risorse ma concentrando tutte quelle disponibili verso un grande piano di drastica riduzione delle tasse sul lavoro, capace di innescare uno shock positivo per l’economia; (ii) liberando gli attori della formazione (sia essa universitaria, professionale o artistica) e del mondo del lavoro dai vincoli giuridico-amministrativi, economici e didattici che impediscono l’affermazione nel nostro Paese di vere e proprie Accademie Politecniche per l’Impresa, dedicate alla formazione professionale e umana dei tecnici richiesti dall’industria 4.0 (si parla nei prossimi cinque anni di un gap di 280 mila addetti in settori cardine dell’industria italiana come la meccanica, l’agroalimentare, la chimica, la moda e l’Ict), attraverso la creazione di un hub di accelerazione segmento della formazione terziaria professionalizzante che sia realmente al servizio delle imprese e delle famiglie; (iii) creando le condizioni giuridico-istituzionali per permettere collaborazione e gioco di squadra tra imprese, famiglie e terzo settore, liberando spazi oggi occupati dal settore pubblico a favore della libera iniziativa economica e della solidarietà.
È un salto di qualità quello che serve al Paese per il futuro del lavoro. Una rinnovata cultura del lavoro, dell’impresa e della democrazia che affondi le sue radici in quei valori di fondo della nostra società e in quella sapienza cristiana e civile che è viva in molte anime del mondo imprenditoriale e del terzo settore. Essa rappresenta, anche per il lavoro 4.0, un fondamento solido, generativo e capace di ripristinare quegli anticorpi sociali che sembrano essere sin qui venuti meno nella politica come nell’economia del profitto e dello scarto.