Le banche in crisi, la guerra in Ucraina e il decoupling Usa-Cina: le vulnerabilità geopolitiche del capitalismo occidentale
Per capire i legami con il quadro politico-economico internazionale, conviene andare un po’ al fondo della questione.
Silicon Valley Bank, Silver Gate, Signature Bank, First Republic Bank, Credit Suisse, Deutsche Bank e altri istituti minori: sono diverse le banche che hanno fatto tremare la finanza occidentale. Le rassicurazioni glissano sui fattori strutturali che, stimolati dalle congiunture, hanno sollevato un’onda che poi così anomala non è. Per capire i legami con il quadro politico-economico internazionale, conviene andare un po’ al fondo della questione.
Sulle banche ha pesato un comune fattore contingente: il rialzo dei tassi d’interesse per contrastare l’inflazione, a sua volta determinata dal rimbalzo economico postpandemico e dalle strozzature di mercato procurate dalla politica estera dei governi occidentali.
L’aumento dei tassi – ricetta di dottrina neomonetarista che domina da decenni tra i governatori centrali – crea una stretta creditizia che deprime consumi e investimenti produttivi. Ma impone anche agli istituti di cercare liquidità, per ricollocare – svendendole – le obbligazioni acquistate con tassi inferiori e acquistare le nuove, più remunerative. Se contestualmente i clienti corrono agli sportelli per riscuotere i depositi, la voragine in bilancio si ripercuote sul mercato azionario facendo crollare i titoli. Semplificando, ciò è accaduto alle banche statunitensi, prese d’assalto per il timore dell’insolvenza che ha agitato gli intestatari di conti superiori ai 250mila dollari, oltre i quali non vige la copertura assicurativa federale.
Sul fallimento della Svb in particolare hanno inciso: la natura di forziere delle startup hi-tech, in sofferenza dopo i profitti della pandemia (che ha fatto la fortuna dell’e-commerce); le “perdite nascoste”; la mole (93%) di depositi oltre la predetta soglia di tutela; la pregressa scelta di dedicare la metà del portafoglio clienti ai capitali di rischio. La speculazione ha fatto il resto, anticipando la decisione del governo di salvare gli istituti traballanti con 300 miliardi di dollari a beneficio dei depositi oltre soglia, assumendo a garanzia i titoli di debito del Tesoro per il loro valore nominale anziché di mercato.
Vittima della miccia dei tassi – e del rifinanziamento di precedenti scelte azzardate – anche la Credit Suisse, salvata da Ubs che l’ha rilevata sotto spinta del governo, che l’ha prima ricapitalizzata con 263 miliardi di franchi (1/3 di pil): non proprio un bel messaggio ai contribuenti con redditi da lavoro, con un salvataggio che certo non fa da deterrente alle disinvolture bancarie.
Il caso tedesco, Deutsche Bank in testa, mostra meglio i nessi tra l’inflazione a monte del rialzo dei tassi Bce, le strozzature di mercato dovute all’allentamento della liason con la Cina intimata da Washington e la fame di gas russo. Inoltre il Fiscal Compact inibisce ai governi Ue stimolazioni espansive ai consumi, utili a compensare il calo dell’export extracomunitario della Germania, sostenuto dalle banche tedesche che prosperano facendo credito ai Paesi importatori.
Ciò basta per riconoscere gli effetti della guerra in Ucraina. Le sanzioni restringono scambi e sbocchi di spesa proprio all’indomani delle iniezioni di capitali per la ripresa postpandemica. E logorano anche chi le infligge, anche perché non si tratta di un conflitto asimmetrico come i precedenti, ma contro un nemico provvisto di orbite di resilienza alternative che creano persino nuova concorrenza all’Occidente. Ma le guerre producono comunque debito: se quella in Afghanistan fu spesata dall’acquisto cinese di titoli Usa, oggi l’esigenza di finanziare il Tesoro vale per le commesse di armi da produrre per Kiev.
Al fondo si intravedono i cortocircuiti della finanziarizzazione modello Usa del capitalismo occidentale, fondato su debito e consumo confidando nei beni prodotti dalle economie subalterne, così da rendere l’egemonia unipolare l’unica opzione possibile. Per anni l’Occidente ha potuto permettersi tassi contenuti e un’inflazione controllata grazie alle produzioni a basso costo della Cina. Oggi la sfida multipolare del Dragone (non più relegato a mera “fabbrica del mondo”) detta agli Usa la via della reindustrializzazione e del protezionismo teso a disaccoppiare l’Occidente dalla sponda orientale, con una guerra commerciale condita da sanzioni unilaterali. Ma la separazione geopolitica delle filiere e l’interruzione delle catene di valore comportano costi e tempi che fanno tremare i pilastri dell’economia reale: una rivoluzione dall’alto che rischia l’autolesionismo, in un sistema ove crescita produttiva e accumulazione finanziaria richiedono misure divergenti, a cominciare dai tassi.
Nel frattempo, da quando Blinken ha cancellato il viaggio a Pechino, la Cina sta accelerando l’autopromozione a perno responsabile dell’interdipendenza globale, con un concetto di sicurezza fondato sul multilateralismo regionalizzato, offrendone un saggio con la mediazione per la storica distensione raggiunta tra Iran e Arabia Saudita. Se le tempistiche significano qualcosa, la visita di Xi a Mosca e le crisi bancarie possono aver suggerito a Macron e Sanchez di calendarizzare i loro viaggi a Pechino. Persino von der Leyen, in deroga al suo ultratlantismo, ha ceduto all’invito del premier francese ad accompagnarlo, dichiarando all’European Policy Center che nell’interesse Ue occorre scongiurare la separazione dalla Cina. Segno che lo scenario di un’inflazione stabile al 4% con tassi comunque alti e crescita frenata, preconizzato per l’era del decoupling Est-Ovest, spaventa anche i più fidi gregari.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense