Le Regioni chiedono autonomia. Dialogo con il Governo
Si torna per l'ennesima volta a discutere di autonomia differenziata o rafforzata.
Si torna per l’ennesima volta a discutere di autonomia differenziata o rafforzata, vale a dire della possibilità di assegnare alle Regioni la competenza esclusiva su materie che la Costituzione elenca tra quelle in condominio con lo Stato o addirittura, in alcuni casi, di esclusiva competenza di quest’ultimo. L’art.116 della Carta, modificato dalla controversa riforma del 2001, parla di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” che possono essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario su loro richiesta. Come si ricorderà, le prime a prendere l’iniziativa e a percorrere passi concreti in questa direzione sono state Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, ma nel tempo anche altre si sono dichiarate esplicitamente interessate. Una vicenda complessa che si è finora snodata con alterne fortune sotto ben quattro governi (Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi) e che ha politicamente una storia singolare. E’ una rivendicazione di bandiera della Lega, una sorta di mito delle origini, ma trova il suo presupposto giuridico nella citata riforma del 2001 che fu voluta fortemente dal centro-sinistra. Non a caso, delle tre Regioni che hanno fatto da battistrada – pur con rilevanti distinguo – due sono guidate dalla Lega, una dal Pd.
L’accelerazione che si è registrata in queste settimane è dovuta all’attivismo del ministro leghista Roberto Calderoli, competente per il settore, che ha presentato alle Regioni una bozza di disegno di legge attuativo. Anche nell’attuale maggioranza, tuttavia, le posizioni sono tutt’altro che univoche. A frenare sono Forza Italia e soprattutto FdI, che intende legare l’avanzamento del progetto autonomistico agli sviluppi della sua proposta identitaria in materia istituzionale, quella del presidenzialismo. In questa fase si potrebbe quasi dire che sull’argomento la linea di contrapposizione tra destra e sinistra è meno netta di quella tra Nord e Sud. Se da tempo alcuni presidenti delle Regioni settentrionali hanno fatto di questa operazione il loro cavallo di battaglia, i loro omologhi di alcune Regioni meridionali sono scesi vigorosamente in campo contro quella che viene definita la “secessione dei ricchi” (titolo di una fortunata opera dell’economista Gianfranco Viesti). Non proprio il miglior viatico per un’impresa in cui sono in gioco valori costituzionali di capitale importanza e che per questo dev’essere tenuta al riparo da forzature temporali e ideologiche, se non si vuole mettere a rischio l’unità della Repubblica e compromettere la stessa praticabilità di un sano regionalismo. Su alcuni snodi cruciali della discussione in corso, a cominciare dall’effettiva introduzione degli ormai mitici “livelli essenziali delle prestazioni” da assicurare su tutto il territorio nazionale e dal coinvolgimento pieno del Parlamento nell’elaborazione e nell’approvazione delle norme attuative, sarà necessario comunque un approfondimento rigoroso e ponderato. Ma prima ancora la domanda che bisogna porsi è se sia questo ciò di cui oggi il Paese abbia prioritario bisogno e non piuttosto di uno sforzo condiviso per superare le disuguaglianze e rafforzare i vincoli di solidarietà.