Lavoro. Calabrò: “L’impresa sia attore sociale positivo per l’economia ‘giusta’, ‘civile’ e ‘circolare’”
“L’impresa riformista” è il titolo del nuovo libro di Antonio Calabrò, giornalista e scrittore con una vasta esperienza nel campo dell’editoria economica. È direttore della Fondazione Pirelli, vicepresidente di Assolombarda, docente all’Università Cattolica di Milano, per citare soltanto alcuni dei suo numerosi incarichi. La sua analisi muove dall’interno del mondo delle imprese e allo stesso tempo prova a tracciare una prospettiva più ampia, in cui le stesse imprese sono chiamate a svolgere un ruolo socialmente rilevante. Gli abbiamo rivolto alcune domande a partire dai temi del suo ultimo libro
“L’impresa riformista” è il titolo del nuovo libro di Antonio Calabrò, giornalista e scrittore con una vasta esperienza nel campo dell’editoria economica. È direttore della Fondazione Pirelli, vicepresidente di Assolombarda, docente all’Università Cattolica di Milano, per citare soltanto alcuni dei suo numerosi incarichi. La sua analisi muove dall’interno del mondo delle imprese e allo stesso tempo prova a tracciare una prospettiva più ampia, in cui le stesse imprese sono chiamate a svolgere un ruolo socialmente rilevante. Gli abbiamo rivolto alcune domande a partire dai temi del suo ultimo libro.
Abbiamo attraversato una stagione in cui il “fare impresa” ha goduto di un’alta considerazione sociale. Adesso il clima sembra essere completamente cambiato, il mondo delle imprese viene spesso guardato con diffidenza. Perché?
La Grande Crisi del 2007-2008, con le sue pesanti conseguenze sociali, ha svelato l’illusione di una globalizzazione sempre vantaggiosa per tutti, d’un progresso inarrestabile e generalmente positivo. La rapacità finanziaria di operatori attenti solo al profitto immediato e a ogni costo ha allungato le sue ombre negative su tutte le attività economiche e inquinato i valori legati a una corretta concezione dell’impresa e del mercato.
Il progresso impetuoso delle nuove tecnologie digitali ha creato, accanto a innegabili vantaggi sul benessere di milioni di persone, nuovi squilibri, nuove diseguaglianze. E la politica non ha saputo farsi carico del bisogno di costruire migliori condizioni di lavoro e di vita, nel corso di un processo di radicali sconvolgimenti economici e sociali.
Non c’è stata, insomma, una generosa visione del futuro. Le imprese ne hanno pagato il costo, in termini d’immagine e reputazione, senza che l’opinione pubblica fosse sollecitata a distinguere tra speculatori e imprenditori che investono, innovano, creano ricchezza diffusa e inclusione sociale. E le polemiche sollevate da chi, anche in ambienti di governo in Italia, chiama irresponsabilmente “prenditori” tutti gli imprenditori non hanno aiutato a fare chiarezza. In tempi di crisi è grave alimentare rancori, invece che impegnarsi a risolvere squilibri e distendere tensioni sociali. Il Censis ha insegnato che al corpo sociale “caldo” bisogna rispondere con una testa di governo “fredda”. Purtroppo, sta succedendo il contrario.
Le imprese, gli imprenditori, non hanno niente da farsi perdonare?
Molte imprese hanno investito, innovato, conquistato nuovi mercati internazionali, creato lavoro. Ma non sono state in grado di fare sistema, assumersi la responsabilità di pensare a un disegno generale di sviluppo che andasse oltre i cancelli delle fabbriche. Si sono raccontate poco e male. Nella crisi, hanno risposto come sapevano e potevano, migliorando produttività e qualità. Ma nel chiuso nel loro ambiente economico. Da qualche tempo, per fortuna, il clima è cambiato e molte associazioni di impresa, parecchi imprenditori hanno cominciato a fare sentire la propria voce, pretendendo dal governo nuove scelte politiche per lo sviluppo e il lavoro, non per l’assistenzialismo, i redditi di cittadinanza, le pensioni anzitempo. Con uno sguardo che vada verso un rilancio dell’Europa, orizzonte essenziale di crescita economica, ma anche di solidarietà sociale. Un’Europa migliore, nonostante tutto.
In che senso l’impresa può essere “riformista”? Deve diventare un partito?
L’impresa riformista è quella che pensa, propone e mette in pratica nella sua attività quotidiana progetti, programmi, iniziative che incidono non solo sull’esistenza dei suoi dipendenti, ma migliorano l’ambiente generale e usano correttamente le leve dell’inclusione sociale.
L’impresa come attore sociale positivo per l’economia “giusta”, per l’economia “civile” e “circolare”: tecnologie e innovazione al servizio del benessere più ampio.
Messa da canto la finanza rapace, torna alla ribalta l’economia reale. Si guarda alla “fabbrica bella”, ambientalmente e socialmente sostenibile, ben progettata, accogliente, sicura. E si lavora pensando che l’impresa industriale è un vero e proprio ascensore sociale, uno dei pochi attivi in questo nostro paese purtroppo bloccato: seleziona e fa crescere persone capaci, competenti e appassionate, scelte indipendentemente dal genere, dal colore della pelle, dalle opinioni politiche e culturali, dal credo religioso.
Si parla di “responsabilità sociale d’impresa”. A che punto siamo, in Italia, sotto questo profilo?
Meglio parlare di “sostenibilità”, considerandola peraltro come una leva fondamentale di competitività. La “green economy”, cioè il fare impresa con basso impatto ambientale, uso delle energie rinnovabili, riduzione dei rifiuti e corretto smaltimento (bloccando peraltro i processi di smaltimento illecito delle “mafie ambientali”), sicurezza sul posto di lavoro e qualità dei processi produttivi e dei prodotti, è in Italia più diffusa di quanto si pensi. Le indagini di Symboladocumentano che le imprese “green” e “coesive” hanno migliori risultati in termini di produttività, capacità di esportazione, redditività. Essere “green” è giusto e conviene. Anche questo è “impresa riformista”.
Di che cosa avrebbero bisogno le imprese italiane per essere aiutate a fronteggiare la nuova stasi dell’economia in cui ci ritroviamo senza ancora essere completamente usciti dalla crisi precedente?
Di un ambiente culturale e giuridico favorevole e non ostile al fare impresa. Di leggi che stimolino fiscalmente chi investe, innova, esporta, cresce, apre il proprio capitale a nuovi investitori fuori dai recinti della tradizionale proprietà familiare. Di mercati aperti e ben regolati. E di robusti investimenti pubblici in ricerca, innovazione, formazione, trasferimento tecnologico. E naturalmente in infrastrutture, materiali e immateriali: ferrovie, porti, strade, reti digitali. Un ambizioso programma di sviluppo, come quello che stimolò la ricostruzione del dopoguerra e poi il boom economico degli anni Cinquanta. Politiche positive, non rancori. Progetti. Non divieti. Ponti innanzitutto verso i partner della Ue, non nazionalismi e sovranismi. Nel contesto di una ambiziosa e generosa strategia di miglioramento della qualità dello sviluppo e degli equilibri sociali. L’impresa riformista è pronta a fare la sua parte.