La deriva dei migranti. Don Gianromano Gnesotto: "Ogni vita persa è una sconfitta"
Ci risiamo: sembra un copione già scritto. Rimpalli di responsabilità e slogan ormai invecchiati nella loro inefficacia ci parlano di una realtà ancora una volta troppo difficile da comprendere e dimenticare. Le pagine dei quotidiani e le immagini dei mass media ci mostrano vite spezzate in quello che papa Francesco ha definito come un «cimitero senza croci e senza nomi», il mar Mediterraneo.
È di qualche giorno fa la notizia di un piccolo ivoriano morto per il freddo, sì per ipotermia. E così torna alla memoria un altro “piccolo”: era il 2 settembre 2015 e Aylan Kurdi, il profugo siriano di soli 3 anni, ara disteso senza vita sul bagnasciuga della spiaggia turca di Bodrum. E il mondo si indignò. Ma quello sdegno non è bastato per impedire che ancora tante altre persone attraversassero qual mare e li perdessero la vita. Secondo le stime del progetto «Missing Migrants» dell’Oim (l’Organizzazione internazionale delle migrazioni) nei primi 8 mesi di quest’anno sono 1.337 i migranti morti o dispersi nel Mediterraneo centrale, di questi 50 erano minorenni.
«È necessario mettere in evidenza che in qual mare muoiono persone che hanno un’identità, una famiglia, una terra che lasciano – afferma don Gianromano Gnesotto direttore della Migrantes, l’Ufficio della diocesi di Padova di pastorale dei migranti –, e qualsiasi vita che viene persa è un grande dolore, una sconfitta. Sono persone che bussano alle nostre porte, dell'Italia, dell’Europa».
Nell’ultimo periodo i migranti vengono soprattutto dall’Africa subsahariana, una zona che va dal Shael al corno d'africa, dove si sta verificando una catastrofe umanitaria per le carestie, le guerre, le calamità naturali e persecuzioni. È quindi loro diritto poter fuggire ma oggi l’Europa «sembra essere una casa chiusa in cui si fa sempre più fatica ad entrare» continua il sacerdote. C'è una normativa internazionale che riguarda non soltanto il diritto e dovere di soccorrere le persone in mare ma anche dell’accoglienza dei profughi, di chi scappa dal proprio paese per condizioni avverse. Assistiamo a situazioni in cui le persone muoiono nel territorio italiano perché un tratto di mare che dalla Libia va a Lampedusa è anch’esso parte del nostro stato. Conosciamo queste tragedie e, a parte qualche «moto di pietà per cui si ricordano le vittime con la preghiera», dall' altra parte la società sembra quasi assuefatta di fronte a questa situazione» continua don Gnesotto.
Il problema sta anche nella cosiddetta Convenzione di Dublino: prevede che il primo paese di accoglienza in cui il migrante può fare la domanda di asilo o di riconoscimento dello status di rifugiato, sia il paese di primo approdo. E l’Italia lamenta di essere la “porta d’Europa” in cui arrivano la maggior parte dei migranti. Da questa impasse legislativa per adesso non se ne esce se non con un sistema di ridistribuzione volontaria di queste persone, nei paesi europei che danno disponibilità. Ma con questo criterio troppe tensioni si sono generate fra gli stati membri. Le ultime sono per le navi Humanity 1, la Geo Barents e la Ocean Viking. Ci auguriamo solo che la mancanza di lungimiranza politica nonché legislativa che riguarda principalmente il diritto internazionale, non siano ancora a scapito di vite umane. Intanto continuano a funzionare i corridoi umanitari: il progetto “Pagella in tasca” realizzato dall' organizzazione umanitaria Intersos in collaborazione con Unhcr, finanziato dalla Conferenza episcopale italiana, ha come partner la Fondazione Migrantes. Attraverso questi corridoi sono arrivati in Italia, dai campi per rifugiati in Niger, 9 ragazzi sudanesi in fuga dalla guerra in Darfur. L’iniziativa prevede che questi ragazzi – in totale 35, tra i 16 e i 17 anni, tutti con situazioni drammatiche alle spalle – vengano nel nostro paese e inseriti in famiglie tramite l’affido familiare, con una borsa di studio di 12 mesi che permette loro di iniziare o proseguire gli studi. Poi una volta inseriti in famiglia e nei percorsi scolastici possono fare richiesta d’asilo con le normali procedure. Piccoli ma significativi segni di speranza.