La crisi di Kaliningrad e il fattore tempo
Non è remoto il pericolo di incidenti in grado di far detonare lo scontro, laddove la Russia, per rifornire l’oblast via mare, attraversasse le acque territoriali altrui, in un Baltico sempre più lago atlantico.
Kaliningrad, già Königsberg, vanta i natali di Kant, autore, tra altro, del progetto “Per la pace perpetua”. Oggi, invece, la troviamo coinvolta in una vertenza che rischia di far precipitare i rapporti già incandescenti tra Russia e Nato.
Espunta dalla Germania e annessa all’Urss nel quadro delle spartizioni decise a Jalta, a datare dal dissolvimento sovietico l’omonima regione costituisce l’exclave russa con affaccio sul Baltico “caldo” incuneata tra Polonia e Lituania. Il 18 giugno scorso quest’ultima ha parzialmente bloccato l’approvvigionamento dell’oblast di merci russe transitanti su via ferrata lungo i 65 km del varco di Suwalki che sbocca in Bielorussia. Il Cremlino ha promesso reazioni “non diplomatiche” a un atto ritenuto ostile, oltre che illegittimo (stanti gli accordi del 2002). La ritorsione ora si materializza nell’impegno russo di fornire a Minsk – dettasi intimorita dalle esercitazioni Nato – batterie di missili Iskander-M: gli stessi installati nell’exclave, dotabili di testate nucleari multiple con gittata capace di raggiungere le capitali scandinave e centroeuropee.
Non è remoto il pericolo di incidenti in grado di far detonare lo scontro, laddove la Russia, per rifornire l’oblast via mare, attraversasse le acque territoriali altrui, in un Baltico sempre più lago atlantico. Ancora peggiore sarebbe l’iniziativa russa di interdire lo spazio aereo sopra Suwalki, o addirittura di occupare il corridoio in poche ore: azione che innescherebbe la clausola d’intervento dell’art. 5 del Trattato atlantico. Vilnius, suffragata dalle dichiarazioni di Borrell, ha replicato di avere solamente applicato le sanzioni deliberate a Bruxelles. Ma diverse ore dopo il responsabile degli Affari esteri Ue ha fatto marcia indietro, esprimendo l’esigenza di linee guida più chiare nell’applicazione “intelligente” dei divieti, confermando l’invito alla calma dell’ambasciatore Ue a Mosca.
Per quanto le misure Ue si espongano a interpretazioni difformi, basta visitare il sito in rete del Consiglio europeo per leggere, nella pagina dedicata alle “Spiegazioni delle sanzioni contro la Russia”, che l’interdizione agli operatori russi e bielorussi del trasporto su strada (senza menzionare quello ferroviario) di merci in transito non riguarda i flussi tra Russia ed exclave.
Ciò basta a interrogarsi sul movente lituano. Da un lato, potrebbe trattarsi della spinta in avanti dell’oltranzismo russofobico in seno alla Nato, azionata da un Paese che nutre un revanchismo rimontante allo smembramento del Granducato (XII-XVIII sec.) esteso dal Baltico al Mar Nero, infine spartito tra Prussia e Russia. Si può anche ipotizzare un atto unilaterale mosso dall’eccesso di zelo che talvolta nella storia (inaudita magistra) ha indotto i gregari a tirare la corda sino a procurare casus belli in grado di sovvertire le agende delle potenze egemoni. Talvolta anche per forzarne i freni secondo la logica acceleratoria del “tanto peggio tanto meglio”.
Se così fosse, la provocazione lituana contrasterebbe con la prospettiva Usa di prolungare la guerra russo-ucraina senza scatenare un conflitto nucleare. Il che pare collimare con l’aspettativa di Mosca di giovarsi del fattore tempo. Infatti, se la Casa Bianca mira all’indebolimento sistemico della Russia, quest’ultima si aspetta che il protrarsi del conflitto conduca a due esiti: da un lato, la resa del nemico per l’esaurimento di truppe di ricambio presto addestrabili; dall’altro, l’estenuazione delle economie europee, attese dell’appuntamento degli approvvigionamenti energetici post-estivi. A dimostrarlo sta l’avanzamento inesorabile ma lento in Donbass, dove la fanteria viene preferita a un massiccio ricorso all’artiglieria, per risparmiare uomini e mezzi conservando il rapporto di vantaggio. Il tutto continuando a bersagliare arsenali e siti di addestramento a ovest, saldo il presidio dell’Isola dei Serpenti al largo di Odessa, che consente di controllare il delta del Danubio, di inibire i flussi dalle coste romene e, nel futuro, di precludere un quadrante di bacino ricco di idrocarburi.
Nel frattempo, Kiev derubrica le sconfitte a ripiegamenti tattici in vista della controffensiva fissata ad agosto, promettendo di recuperare le posizioni perdute grazie agli armamenti in arrivo. Ma al contempo denuncia perdite pesanti e l’indisponibilità di canali negoziali. I proclami ondivaghi tradiscono la preoccupazione per l’estenuazione temporale ma anche per i malumori interni, agitati da un’ultradestra che ne condanna l’irresolutezza e da quanti, invece, lamentano carenze di lume diplomatico.
Dal canto loro, i governi occidentali garantiscono partite di armi proclamando di non volere ingerirsi nelle condizioni di pace, lasciate all’esclusiva determinazione ucraina. Tradotto: l’orizzonte programmatico di tutte le parti coinvolte resta la guerra. È un dato di fatto, ovvio, che tuttavia suggerisce un’opzione discutibile se associata allo pseudo-realismo dei commentatori che rileggono malamente le tesi di Huntington, ricavando dalle guerre del ’900 il postulato per cui la democrazia liberale avanza sull’onda degli sconquassi. Ben altro il realismo di papa Francesco che, senza temere l’impopolarità presso il conformismo benpensante, registra, nel protrarsi del conflitto, le responsabilità sia di chi muove guerra sia di chi compone narrazioni manichee buone solo per la favola di Cenerentola. Ammesso che la tesi sulle magnifiche sorti e progressive sia vera, sia lecito chiedersi senza filtri: a quale costo? pagato da chi? con quali conseguenze?
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense