L’eredità della pandemia. Il Veneto a cinque anni dal lockdown del 9 marzo 2020
Cinque anni fa, il 9 marzo 2020, l’Italia si chiudeva in un lungo lockdown per fronteggiare il Covid-19. A oggi le vittime sono 199 mila, 17 mila in Veneto, che ricorda la prima vittima, Adriano Trevisan. Quale responsabilità morale ci portiamo dietro?

Nella settimana dal 20 al 26 febbraio scorso, in Veneto una persona è morta di Covid-19. Tre decessi, invece, durante la settimana precedente. Ancora adesso, sul sito del ministero della Salute, è possibile consultare il bollettino (ora settimanale) sull’andamento del Coronavirus in Italia, tra contagi, nuovi casi, tamponi, e tassi di positività. Oggi il virus è certamente diffuso, ma come la stessa Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato il 5 maggio 2023, l’emergenza è finita, ci troviamo, insomma, in una dimensione “normalizzata”, con la campagna vaccinale che puntualmente parte in autunno al pari di quella antinfluenzale. Ma a distanza di cinque anni dall’inizio della pandemia, cosa ci rimane? Quale eredità morale ci sentiamo di doverci sobbarcare per non cancellare quello che c’è stato? E così, sempre sul sito del ministero della Salute, è possibile scorrere all’indietro il calendario per risalire all’origine di tutto: ci vogliono 61 click di mouse per frenarsi al febbraio 2020 e mettere in moto un misto di ricordi di quelle folli, ansiogene ore che poi sarebbero diventate settimane e mesi, dalle 22.07 del 21 febbraio, quando Adriano Trevisan, 77 anni di Vo’, diventava la prima vittima in Italia di Covid-19, seguito poi da Renato Turetta, il secondo contagiato e morto il 10 marzo, in mezzo il “fuggi-fuggi” nell’isteria di massa per prendere un treno notturno e rientrare a casa, fino all’annuncio dell’allora premier Giuseppe Conte del 9 marzo: «L’Italia è in lockdown». Quei 61 click ci consegnano numeri inquietanti: oltre 17.600 morti in Veneto, quasi 199 mila deceduti in Italia. «Lo ricordo bene quel 21 febbraio 2020 – confessa Luca Zaia, presidente della Regione del Veneto – Mi trovavo a Treviso, da già più di un mese in Italia era stato dichiarato lo stato d’emergenza e noi eravamo l’unica Regione ad avere un piano pandemico aggiornato che prevedeva, qualora avessimo riscontrato la prima persona infetta, una riunione urgente nella sede dell’Ulss di residenza dell’infetto. Così mi misi in macchina, per le 17-17.30 ero a Padova, una riunione con una decina di persone, avevamo in testa queste immagini che giungevano da Wuhan, dalla Cina con personale medico bardato di tute bianche, cittadini prelevati e portati via in ambulanza. Oggi penseremmo a una creazione dell’intelligenza artificiale. Lì per lì, durante la riunione, alcune cose che proposi non furono comprese: obbligai a fare 3.500 tamponi a tutti i cittadini di Vo’, la spesa economica per questa procedura non era, in quel momento, giustificata da nessuna norma, da nessun regolamento anche perché l’Oms dava come indicazione la procedura del tampone solo per i sintomatici. Ai primi di febbraio chiesi l’isolamento fiduciario per chi tornava dal Capodanno cinese, generò polemiche, ma al tempo, capisco, era tutto impensabile. Poi seguì la chiusura dell’ospedale di Schiavonia, in quattro giorni lo rendemmo ospedale Covid, il primo in Italia, e con la Protezione civile montammo le tende riscaldate fuori da tutti i pronto soccorso. Se fosse stata una banale influenza oggi sarei giustamente indagato, ma nella frenesia di quelle ore non volevo avere sulla coscienza la vita di migliaia di persone».
Zone rosse, quarantena, ffp2, focolai, tampone positivo, tampone negativo, lockdown, distanziamenti, dolore, sofferenza, perdita del sapore e dell’olfatto, maschere per l’ossigenazione, greenpass, autocertificazioni, la solitudine. La lista si allunga e si carica di vissuti personali, dei tanti cari e affetti strappati proprio nel momento del bisogno, di quando ci sarebbe bisogno della vicinanza, degli abbracci, della preghiera. Funerali vietati in chiesa, chiuse case funerarie e sale di commiato, ammessa la benedizione della salma al cimitero solo in forma privata. «È proprio la solitudine che mi ha colpito della prima fase del Covid – rimarca Zaia – C’era davvero la paura del non sapere, del timore di essere contagiati, del restare vivi. In quei mesi ho saputo di persone morte da sole, in terapia intensiva, in totale isolamento; c’era qualcuno che aveva la possibilità di fare una videochiamata ai familiari, ma c’è chi non ha avuto nemmeno questa ultima occasione. Un’altra immagine che ho, poi non sarebbe stata l’unica, le fosse comuni scavate nel Bronx, a New York. La pandemia era diventata mondiale. Ricordo però anche l’emozione nel sentire a mezzogiorno la musica e il cantare provenire fuori dai balconi dei palazzi vicino casa. Era un brivido». È difficile rimanere indifferenti, impassibili, poi, nello scorrere l’elenco delle infermiere, degli infermieri, del personale sanitario e dei medici che hanno perso la vita durante la fase acuta della pandemia, ma anche successivamente, provati nello spirito e nel corpo. La Fnomceo, la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, li ricorda sul proprio sito, con una pagina scolpita da un lungo elenco di 383 nomi e cognomi. Alcuni di questi, casualmente, catturano l’attenzione, come Francesco De Francesco, morto il 23 marzo 2020, “pensionato, già medico ospedaliero, scultore e pittore” si legge; o Andrea Dall’O, morto il 28 ottobre 2023, quando l’emergenza per molti di noi era alle spalle. «Il personale sanitario curava chi stava morendo con il rischio di infettarsi: questa è stata la storia del nostro Covid. Ecco perché non possiamo passare da “andrà tutto bene”, “sono i nostri eroi”, foto iconiche sui social a poi ritrovarci che sono attaccati, aggrediti e messi in discussione. Parliamo di professionisti che hanno rischiato la propria vita, in alcuni casi perdendola: io questo eroismo non l’ho visto nei cittadini delle prime ore, quando vedevi uno che starnutiva e c’era il panico. È anche grazie a loro, a questi medici e infermieri che ora saremmo pronti, in caso di nuova emergenza sanitaria. I piani pandemici sono sempre più aggiornati, pensiamo ai protocolli messi in atto, ma anche alla “semplice” mascherina, sconosciuta prima del Covid, ma ora simbolo di una maggiore attenzione di chi va a trovare una persona fragile in ospedale, ma anche un genitore anziano. Ogni evento, inevitabilmente porta un vissuto che “metti a terra come un miglioramento”, dopodiché è inutile negarlo: così come mio nonno diceva che la sua vita era scandita da prima e dopo la guerra, lo stesso possiamo dire noi con la pandemia». Da più di tre anni l’Oms sta lavorando sul “Trattato internazionale sulla prevenzione, sulla preparazione e sulla risposta alle pandemie”, non mancano tuttavia divergenze di veduta tra i Paesi principalmente sulle risorse economiche da destinare e sulla condivisione dei dati e delle responsabilità. Non da meno, il Covid-19 ha ulteriormente messo a nudo le diseguaglianze sociali. Chi può permettersi di dire di vivere nel dopo di una pandemia che ha stravolto la vita di miliardi di persone in tutto il mondo, chi ha il dono di poterlo affermare, si trova davanti a una grande sfida e responsabilità: fare tesoro di quello che è stato. Perché virologi, docenti ed esperti sono certi che succederà ancora. Resta da capire solo quando.
Addio obbligo mascherine, in vigore non è rimasto niente
L’ultimo obbligo per la prevenzione rimasto in vigore fino al 30 giugno del 2024 era quello delle mascherine, che andavano indossate nei reparti degli ospedali che ospitavano pazienti fragili, anziani o immunodepressi. Quest’obbligo era stato previsto da un’ordinanza del ministero della Salute del 28 aprile del 2023, che era poi stata prorogata fino allo scorso giugno.
Vaccino, l’80 per cento dei veneti è immunizzato
Nell’aprile 2021 in Veneto è nato il portale per le prenotazioni delle vaccinazioni: a oggi quasi l’80 per cento dei veneti è immunizzato, il 62 per cento dei ragazzi tra i 12 e i 19 anni.
Opsa, le iniziative per andare oltre alla pandemia
A cinque anni dalla prima vittima di Covid-19 in Italia, l’Opsa riflette sull’impatto della pandemia e avvia il progetto “In Con-Tatto” per superarne gli strascichi. Finanziato per l’80 per cento dalla Regione Veneto, il progetto promuove l’inclusione sociale attraverso attività di stimolazione sensoriale per 110 ospiti con fragilità. Collaborano scuole, associazioni e cooperative del territorio. L’Opsa, con 600 ospiti e 590 collaboratori, ha gestito l’emergenza con protocolli rigorosi: tra il 2020 e il 2023 si sono registrati 660 contagi tra gli ospiti (24 decessi) e 703 tra il personale. Sono stati eseguiti 132.644 tamponi e 4.122 vaccinazioni. Da segnalare, poi, che da inizio 2021 a inizio 2022 (in una delle fasi più acute dell’emergenza) sono state garantite 9.272 visite familiari tra area disabilità e area anziani. Info sul progetto: www.operadellaprovvidenza.it
Il programma di esercitazioni, guardando oltre
In questi anni la Regione Veneto, guardando al futuro, ha avviato un programma di esercitazioni Simex (Simulation Exercise) per testare la capacità del sistema sanitario di reagire rapidamente a potenziali nuove pandemie e altre emergenze infettive. Si tratta di simulazioni avanzate, che coinvolgono operatori sanitari, istituzioni e tutti gli attori chiave della sanità pubblica, che permettono di provare e migliorare la capacità di risposta del sistema sanitario in caso di nuove pandemie o altre emergenze. Nel biennio 2023-2024, il Veneto ha organizzato 37 esercitazioni, di cui sei a livello regionale e 31 coordinate a livello locale dalle Aziende sanitarie.
L’intervista. Cosa abbiamo fatto “nostro”
Romano, 70 anni, oggi senatore del Partito democratico, Andrea Crisanti è stato tra le figure in prima linea nella lotta al SarsCov2 fin dalle prime settimane della comparsa in Veneto. Giunto mesi prima della pandemia all’Università di Padova quale professore di microbiologia, scelto non per concorso ma per “chiara fama”, proveniente dall’Imperial College di Londra dove ha costruito buona parte della sua carriera professionale, Crisanti ha collaborato sin da subito con Luca Zaia, suggerendo di potenziare la capacità di tracciare il contagio, avviando la produzione di reagenti chimici necessari a elaborare migliaia di tamponi: l’obiettivo era aumentare il più possibile la capacità di analisi dei test in vista di una possibile epidemia. Di lì, il suo nome si sarebbe diffuso a livello nazionale e internazionale, e il suo contributo riconosciuto. Il sindaco di Padova Sergio Giordani nel maggio 2020 gli ha consegnato, facendolo commuovere, il sigillo della città.
Professore, a distanza di cinque anni abbiamo dimenticato (volutamente) tutto quanto successo in quel periodo? Non sentiamo più parlare di Covid e, anzi, tendiamo a minimizzare se sospettiamo che un nostro conoscente si sia contagiato...
«Le vicende negative e i lutti vengono rimossi, le persone fanno fatica ad accettarli e tendono a dimenticare ma poi, inevitabilmente, i problemi vengono a galla. Il nostro cervello è programmato per neutralizzare queste difficoltà, è una risposta fisiologica, accade sia a livello personale che collettivo. Quando perdiamo una persona cara, per esempio, si stima ci vogliano almeno sei mesi per iniziare a provare meno dolore».
Una sorta di amnesia collettiva ci ha fatto eliminare le immagini di ospedali e bollettini medici. Ma, se dovesse comparire una nuova minaccia sconosciuta arrivata da chissà dove, saremmo almeno un po’ più preparati?
«Sì, lo saremmo, visto che è stato stilato il nuovo Piano pandemico nazionale. Anche il precedente era buono per il suo tempo, ma poi era stato dimenticato per almeno vent’anni e non più aggiornato».
Che cosa rimane oggi di buono di quell’esperienza, se qualche insegnamento possiamo trarre?
«Il positivo si può scorgere sull’importanza riconosciuta e sotto gli occhi di tutti che riveste il nostro Sistema sanitario nazionale: oggi ne abbiamo una diffusa consapevolezza sociale e altrettanto politica, tanto da farne parte dell’agenda. Come poi verrà tradotta la necessità di preservarlo e verranno risolte le varie problematiche, resta ancora tutto da vedere».
Alessia Donati