L’arte nell’Islam: quando il divino trascende l’immagine
L’unicità di Dio, principio fondamentale dell’Islam, traccia gli assi portanti di un’arte fatta da geometria e ritmo, parola rivelata e rappresentata.
Come si può parlare di arte islamica in una religione che ha tra i suoi principali postulati di fede il divieto di rappresentare tutto ciò che riguarda Dio e la figura umana?
L’aniconismo è una delle caratteristiche più evidenti dell’Islam: all’interno delle moschee non vi sono statue, affreschi o dipinti di nessun genere e nemmeno la tradizione ci ha trasmesso un ritratto del profeta Muhammad. Nelle miniature lo vediamo rappresentato con il volto protetto da un velo bianco o da una fiamma, rendendolo non distinguibile: un uomo tra gli uomini! Questa stringente interdizione non ha impedito che si sviluppasse un’arte all’interno dell’Islam, seppur non centrata sulla rappresentazione umana: i musulmani hanno trovato altri modi per esprimere visivamente il senso del sacro e la spiritualità della loro fede.
Quale valore è celato dietro il rifiuto delle immagini?
Nel testo sacro del Corano non è espresso esplicitamente questo divieto, piuttosto l’accento è posto su una distinzione radicale: Dio è uno e unico e la creatura è assolutamente altro da Lui. Costruirsi delle immagini costituirebbe farsi degli idoli che renderebbero gli uomini degli idolatri, dei politeisti e non più dei monoteisti.
I musulmani, nella professione di fede, recitano che «lā ilāha illā Allāh», non vi è Dio all’infuori di Dio: vi è solo Lui e l’unico culto a Lui degno è l’adorazione in purità di fede e non la rappresentazione! Il divieto delle immagini diviene, quindi, il fondamento dell’arte sacra islamica.
Se l’arte è in sé simbolica, non si riesce a comprendere come questa definizione si concili con la religione musulmana, tanto più che nel Corano Dio stesso è rappresentato attraverso diversi simboli antropomorfi: egli ha un volto, delle mani, è seduto su un trono. L’Islam ha compensato l’assenza di rappresentazioni esprimendo, come scrive il famoso storico dell’arte islamica Titus Burckhardt, «l’esteriorizzazione per così dire muta di uno stato contemplativo e, in questo caso e sotto questo rapporto, non rifletterà idee ma trasformerà qualitativamente l’ambiente, facendolo partecipare ad un equilibrio il cui centro di gravità è l’invisibile». Centro dell’arte islamica è l’ambiente dell’uomo: egli, liberato dalla distrazione delle immagini, contempla Dio nel vuoto che si è trovato intorno a sé.
Arte e religione nell’Islam sono strettamente intrecciati e il punto massimo di congiunzione tra le due è la calligrafia, forma d’arte che conferisce una forma visibile alla Parola rivelata del Corano. Come in un tessuto, la calligrafia araba disegna il testo sacro in un intrecciarsi di forme geometriche che assumono un ritmo melodioso.
La verticalità delle lettere rappresenta il tendere verso l’Essenza che si sviluppa nell’orizzontalità del divenire e del cambiamento, che, nell’andare da destra verso sinistra sposta l’occhio del lettore dal campo dell’azione alla regione del cuore.
Geometria e ritmo, parola rivelata e rappresentata sembrano essere gli assi portanti di un’arte il cui cuore è il principio fondamentale dell’Islam: l’unicità di Dio. L’uomo e la sua immagine si celano perché tutto ciò che lo circonda, dalla moschea alla città, dalla decorazione ai tappetti, proclami che vi è un unico Dio che tutto abbraccia.
Scritto dai più grandi artisti o da semplici mani di un credente, il nome di Allāh racchiude in sé benedizione, invocazione o semplice icona che insieme si uniscono per diventare professione di fede visibile.
Anna Canton