Il grano non sia un’arma. Se la Russia impedisce l'esportazione di cereali ucraini

La Russia si mette di traverso sull’esportazione di cereali ucraini che sfamano oltre 40 Paesi, molti in via di sviluppo. Una crisi alimentare da scongiurare

Il grano non sia un’arma. Se la Russia impedisce l'esportazione di cereali ucraini

«Una grave offesa a Dio, perché il grano è un suo dono per sfamare l’umanità. Il grido dei milioni di fratelli e sorelle che soffrono la fame sale fino in cielo». E poi l’appello rivolto alle autorità della Russia «affinché sia ripristinata l’iniziativa del mar Nero e il grano possa essere trasportato in sicurezza». Un messaggio accorato, quello che ha rivolto papa Francesco al termine dell’Angelus in piazza San Pietro domenica 30 luglio. Sullo sfondo la decisione di Vladimir Putin e della Federazione Russa di porre fine all’attuazione della Black Sea Initiative, l’accordo tra la stessa Russia e Ucraina e mediato da Turchia e Nazioni Unite per consentire l’esportazione sicura via mare di oltre 33 milioni di tonnellate di cereali e prodotti alimentari in 45 Paesi di tre continenti tradizionalmente dipendenti dall’import collegato ai porti ucraini. L’accordo non è stato rinnovato ed è scaduto lo scorso 18 luglio nonostante le Nazioni Unite avessero concesso alla Russia di poter continuare a esportare cibo e fertilizzanti, convincendo gli Stati occidentali a non imporre sanzioni contro questi prodotti. Questo significa che grano e gli altri cereali dovranno essere spostati presumibilmente via terra, innescando un aumento dei prezzi dei cereali e di fatto acuendo l’insicurezza alimentare di diversi Paesi che non potranno permetterselo. Teofilo Vamerali, professore ordinario della cattedra di Coltivazioni erbacee all’interno del Dafnae, il Dipartimento agronomia animali alimenti risorse naturali e ambiente dell’Università di Padova, sposta le lancette un po’ più indietro nel tempo: «Il problema non è il conflitto tra Russia e Ucraina, perché i prezzi dei cereali sono saliti ben prima della guerra e il problema è l’assottigliamento degli stock dei cereali. La riserva di frumento l’anno scorso era più o meno attorno ai 280 milioni di tonnellate, il che equivale al 36 per cento della produzione annuale di grano: se non producessimo maggiori quantità di grano e frumento da qui in avanti, avremmo a livello mondiale un’autonomia di 4-5 mesi. Le scorte si sono assottigliate moltissimo perché come popolazione stiamo aumentando, a novembre scorso abbiamo superato gli 8 miliardi di persone e tra l’altro la metà di questi stock se li accaparra la Cina che da anni ha investito nell’acquisto di soia e grano e questo fa sì che ci sia tensione sui prezzi». Il mancato accordo segue le dichiarazioni di Putin secondo il quale la Russia entro 3-4 mesi consegnerà gratuitamente il grano russo ai Paesi africani più poveri. La Cina si “trattiene” il 50 per cento degli stock. Che siano strategie? «Di fatto la Russia produce il 10 per cento del grano mondiale e l’Ucraina il 5 per cento. Forse la Russia, per un infondato motivo, non ha rinnovato l’accordo sperando di poter speculare sul prezzo del grano stesso. La Cina, invece, è esclusivamente per il suo fabbisogno interno, sia per la popolazione che per gli allevamenti zootecnici. Ricorre all’import non potendo avere risorse interne sufficienti e vuole mantenere questo equilibrio, forse questo è il motivo per cui non sta molto contrastando la politica di guerra della Russia. Ma ribadisco: il motivo vero per cui i prezzi saliranno, si stima attorno al 15-20 per cento, è che gli stock sono limitati e ci sono aree come quella canadese che sta soffrendo di siccità e incendi. Sono zone vocate alla produzione di grano che stanno subendo i contraccolpi degli eventi climatici estremi».

Secondo Reuters il 65 per cento del grano partito dall’Ucraina fino a oggi è stato inviato in Paesi in via di sviluppo, di cui sette con seri problemi di sicurezza alimentare: il Bangladesh con 1,1 milioni di tonnellate, l’Egitto, con 418 mila, l’Indonesia con 391 mila e poi Kenya, Etiopia, Yemen e Tunisia. Quanto saranno instabili queste aree del mondo? «Il punto è che se anche non lo si mandasse con l’accordo, non è che il grano automaticamente non si troverà, sarà disponibile ma a prezzi più alti. In questa fase, il prezzo del grano è diminuito rispetto a un anno fa: se guardiamo anche la borsa merci italiana di riferimento, la Borsa Ager di Bologna, un anno fa il grano tenero – per capirci quello che si usa per fare il pane – costava 40-42 euro al quintale, quindi 400-420 euro a tonnellata. Attualmente siamo a 250-280 euro, quasi dimezzato. Piuttosto domandiamoci come mai non stia calando il prezzo del pane. I Paesi africani a queste condizioni faranno fatica. Circa 20 anni fa, si stimavano un miliardo di persone sottonutrite, oggi sono poco più di 800 milioni, numeri ancora altissimi. Ma oltre ai problemi alimentari ci sono quelli agricoli: la diminuzione del prezzo mette in difficoltà i produttori perché a fine 2022, quando si semina il frumento, hanno pagato a costi più alti sementi e strumenti e ora ci stanno perdendo». Al recente summit Fao delle Nazioni Unite si è criminalizzato l’utilizzo del cibo come arma di guerra e si è chiesto, a più voci, di insistere verso un’agricoltura sostenibile. Verso quale scenario ci stiamo dirigendo? «Se parliamo di sistemi meno impattanti, stiamo parlando di agricoltura biologica. L’Europa ha fissato entro il 2030 l’obiettivo di convertire il 25 per cento della sua superficie agricola in terreni biologici, ma significa anche ammettere una produzione inferiore rispetto a quella attuale. Il biologico garantisce di media un 30 per cento in meno di prodotti, questo andrebbe incontro alle esigenze di una popolazione che cresce? Certo se pensiamo all’Italia ci aspettiamo un calo della popolazione, ma a livello globale ci sono Paesi africani o la stessa India che ha tassi di natalità elevati. Se vogliamo garantire il raggiungimento della “fame zero” nel 2030 come sostiene la Fao, bisogna fare investimenti per migliorare la capacità produttiva di zone attualmente sotto-produttive, il che vuol dire portare l’acqua dove manca, controllare meglio i parassiti, evitare di perdere i prodotti perché magari attaccati dagli insetti quando vengono stipati nei magazzini, ed evitare lo spreco alimentare».

L’Italia è il quarto Paese per import dall’Ucraina

Secondo i dati del Centro studi Divulga, l’Italia, con il 6,3 per cento complessivo sul totale delle esportazioni ucraine di prodotti agricoli, tra grano, mais e olio di girasole, è al quarto posto dietro Cina, Spagna e Turchia. Nel 2022, grazie all’accordo, in Italia sono arrivati in totale quasi 2,1 milioni di tonnellate di prodotti, di cui il 65,7 per cento è mais, il 21,1 per cento è grano tenero, mentre il 5 per cento è olio di girasole.

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