I social network sono una fogna? No, lo siamo noi quando preferiamo lo sdegno al buon senso
Nessuno venga a dire che è colpa di internet. La rete con i suoi innumerevoli spazi è solo luogo ospitante di bellezze oppure di disagi. Proprio questi ultimi rappresentano uno dei semi del clima contrappositivo, dell’antilogia dilagante, di quell’ansia da prestazione a chi la spara più grossa, a chi oltraggia più del vicino, a chi gonfia maggiormente il petto in nome di una presunta supremazia ideologica. Quello che manca è una traiettoria dritta dei nostri comportamenti, spesso dettati da frustrazioni e malcontenti. Scarseggia la serenità di giudizio che evidenzia – lo spiega bene oggi il politologo Flavio Felice in un’intervista a Città Nuova – come “nel mondo della post-verità ciò che conta non è ciò che è vero, ma ciò che funziona”. È proprio questo il rischio
Conflitto come rivendicazione individuale. Conflitto come propaganda politica. Conflitto come grandezza costitutiva della società. Succede anche questo in Italia all’indomani di una tornata elettorale sofferta, di un risultato complesso e della formazione di un governo inedita e, per certi versi, spiazzante. I vincitori scompaginano l’agenda. Le priorità dell’oggi sono precise. Tra queste, la gestione del fenomeno migrazione e la sicurezza. Temi urgenti che raschiano gli stomachi e che si traducono in post e tweet al veleno, dove l’uomo comune si trasforma in giustiziere, dove l’argomentazione lascia il posto all’ingiuria.
I social network sono diventati una fogna, dicono alcuni. Si tratta di giudizio legittimo ma impreciso e superficiale. La fogna siamo noi quando preferiamo lo sdegno al buon senso, il rancore al confronto, il turpiloquio alla sana argomentazione. Nessuno è escluso.
Né il guerrafondaio digitale di professione né lo pseudo-intellettuale da tastiera. Tutti cadono ingenuamente nelle spirali di un duello ben orchestrato da coloro che dovrebbero attenuarlo. Ministri, politici, rappresentanti delle istituzioni sono, infatti, l’altra faccia del clima imbrutito di queste settimane. Viviamo in un tempo in cui si annulla ogni forma di politicamente corretto e in cui prevale quella che il direttore di Avvenire Marco Tarquinio definisce (in una recente risposta ad alcune lettere dei lettori del suo giornale) una logica del “cattivismo e un’impressionante mancanza di vergogna nel manifestare xenofobia e razzismo, persino di Stato”.
E nessuno venga a dire che è colpa di internet. La rete con i suoi innumerevoli spazi è solo luogo ospitante di bellezze oppure di disagi. Proprio questi ultimi rappresentano uno dei semi del clima contrappositivo, dell’antilogia dilagante, di quell’ansia da prestazione a chi la spara più grossa, a chi oltraggia più del vicino, a chi gonfia maggiormente il petto in nome di una presunta supremazia ideologica. Quello che manca è una traiettoria dritta dei nostri comportamenti, spesso dettati da frustrazioni e malcontenti. Scarseggia la serenità di giudizio che evidenzia – lo spiega bene oggi il politologo Flavio Felice in un’intervista a Città Nuova – come “nel mondo della post-verità ciò che conta non è ciò che è vero, ma ciò che funziona”. È proprio questo il rischio.
Ridurci a mere “funzioni”, a strumenti adatti a far prevalere l’una o l’altra idea, ad azioni razionali – parafrasando Max Weber – soltanto rispetto a uno scopo e non a un valore che per noi cristiani (ma non solo) rimane il rispetto della dignità della persona.
Quella dignità che – twitta Papa Francesco il 20 giugno scorso – “non dipende dall’essere cittadino, migrante o rifugiato. Salvare la vita di chi scappa dalla guerra e dalla miseria è un atto di umanità”. Recuperiamola, quindi, quell’umanità (online e offline) riposizionando le nostre vite su ciò che autentico, nella verità e nella carità. Lo possiamo fare allontanando anzitutto psicosi populiste (da qualunque posizione o personalità politica provengano), paure e livori e riaffermando ciò che siamo realmente: uomini e donne che devono cambiare anzitutto se stessi.
Massimiliano Padula