Flat tax: pro e contro dell’aliquota unica uguale per tutti
In una situazione in cui è necessario tenere in ordine i conti pubblici e quindi le disponibilità finanziarie sono limitate, sono le scelte politiche a fare la differenza. Il vero problema italiano non è tanto la pressione fiscale in sé – anche se suona bene promettere di abbassare le tasse – ma l’enorme evasione e una distribuzione iniqua del prelievo, che penalizza le famiglie con figli e il lavoro. Bisognerebbe ripartire da qui
Si fa presto a dire flat tax. L’idea di una “tassa piatta”, cioè di un’aliquota unica uguale per tutti, non è affatto una novità. Il primo a teorizzarla fu l’economista iperliberista Milton Frideman nel lontano 1956 ed è singolare che in Italia venga riproposta proprio in un momento in cui il vento politico-economico tira da tutt’altra parte. Si fa presto a dire flat tax perché allo stato puro essa di fatto non esiste da nessuna parte, in quanto la sua applicazione viene mitigata da tutta una serie di elementi accessori che incidono non poco sui suoi effetti. Va peraltro detto subito che in Italia, almeno in assenza di robusti correttivi, la flat tax in quanto tale è chiaramente incostituzionale.
L’articolo 53 della Carta recita infatti che: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Progressività vuol dire che la quota di prelievo cresce con l’aumentare del reddito, l’esatto contrario della flat tax. In sé la tassa piatta avvantaggia i redditi più alti, su questo c’è poco da ricamare. Dopo di che la si può certamente integrare in mille modi introducendo meccanismi di progressività, al punto che in certe versioni non si capisce neanche più perché la si chiami flat tax se non per motivi di propaganda.
Resta il fatto che in Europa nessuna delle grandi economie ha adottato questo tipo di tassazione.
Il che dovrebbe pure indurre a qualche riflessione supplementare. La flat tax ha invece preso piede nei Paesi che sono usciti dall’ex-blocco sovietico, a cominciare da quelli baltici fino a Romania, Ungheria, Bulgaria ecc. Paesi che economicamente non sono comparabili con il nostro e in cui il sistema di welfare è poco sviluppato, così che non c’è necessità di alimentare un’ingente spesa pubblica per sostenerlo. Perché al di là di ogni altra considerazione l’effetto della flat tax è una sostanziale riduzione delle entrate fiscali. Ammesso e non concesso che questo poi alimenti in prospettiva una crescita economica impetuosa, nel breve periodo non si capisce proprio come l’Italia, già alle prese con un debito pubblico colossale, potrebbe far fronte a una situazione del genere. Tanto più che l’attuale maggioranza non mostra alcuna intenzione di ridurre la spesa sociale, né di asciugare la presenza dello Stato nell’economia (come sarebbe piaciuto a Friedman). Anzi, si sta andando in direzione opposta.
Nel dibattito italiano l’ultima e più esplicita formulazione della flat tax è quella presentata dalla Lega: un’unica aliquota al 15% fino a 55mila euro di reddito familiare. I proponenti assicurano benefici per 20 milioni di famiglie e risparmi nell’ordine di 3.500 euro per i nuclei monoreddito con un figlio. Servirebbero tanti miliardi, 12-13 secondo la Lega, quatto-cinque volte di più secondo altre stime. La scommessa dei proponenti è di recuperare grandi risorse con l’abolizione di tutte le detrazioni esistenti. Impresa che si preannuncia epica: gli uffici del Senato ne hanno calcolato 636 tipi, di cui 170 a livello locale, e solo per 132 di essi è stato possibile appurare il numero esatto dei beneficiari. Bisogna poi capire che impatto avrebbe l’eliminazione delle detrazioni, perché se alcune di esse sono piuttosto insensate, altre incidono in misura rilevante sui bilanci delle famiglie: sono le detrazioni per lavoro dipendente, per i figli a carico e per il mutuo sulla prima casa.
C’è chi ha provato a rovesciare il punto di vista, e invece della flat tax ha proposto una flat benefit tax (abbreviata in flat benefit).
Il “beneficio piatto” lo ha illustrato Marco Bonmassar su Benecomune, la rivista online promossa dalla Fondazione Achille Grandi delle Acli e diretta dall’economista Leonardo Becchetti. In pratica si tratterebbe di abbattere la prima aliquota dell’attuale Irpef, quel 23% che si paga sulla fascia di reddito fino a 15mila euro. Bonmassar calcola che per il contribuente che percepisce oltre i 15mila euro l’anno (per chi si trova al di sotto ovviamente bisognerebbe introdurre delle correzioni, questo però vale per tutti i modelli) il risparmio sarebbe di 3.450 euro. Il capovolgimento rispetto alla flat tax è che il beneficio è uguale per tutti, ma la sua incidenza sul reddito complessivo ovviamente si riduce all’aumentare del reddito stesso. In proporzione i più ricchi risparmiano meno dei più poveri.
Anche la flat benefit pone il problema del reperimento delle risorse per compensare il minor gettito, ma dimostra che con un approccio non ideologico e propagandistico si possono individuare soluzioni compatibili.
In un’analisi pubblicata su Avvenire, per esempio, l’economista Matteo Rizzolli ha ipotizzato tutta una serie di correttivi per rendere la flat tax a misura di famiglia. Il punto cruciale è che in una situazione in cui è necessario tenere in ordine i conti pubblici e quindi le disponibilità finanziarie sono limitate, sono le scelte politiche a fare la differenza. Il vero problema italiano non è tanto la pressione fiscale in sé – anche se suona bene promettere di abbassare le tasse – ma l’enorme evasione e una distribuzione iniqua del prelievo, che penalizza le famiglie con figli e il lavoro. Bisognerebbe ripartire da qui.