Embargo armi italiane alla Turchia? “Dichiarazione di facciata, troppi interessi in gioco”
Nel 2018 l’Italia ha esportato armi verso Ankara per oltre 362 milioni di euro, primo Paese in Europa. Parazzini: “Italia e Turchia sono nella Nato e aderiscono a patti intergovernativi, difficile pensare di bloccare le armi. In generale gli embarghi di armi vengono aggirati. Erdogan? L’Occidente teme la sua imprevedibilità”
MILANO - “La dichiarazione del ministro degli Esteri di sospendere tutto quello che riguarda il futuro dei prossimi contratti e dei prossimi impegni militari con la Turchia è più che altro di facciata. Ci sono troppi interessi in gioco”. A parlare è Sergio Parazzini, professore di macroeconomia e politica economica all’Università Cattolica ed esperto di commercio mondiale di armi. Così come reputa di facciata la tregua di 120 ore accettata da Erdogan su sollecito americano, una pausa che dovrebbe consentire ai guerriglieri e civili curdi di allontanarsi di 32 chilometri dal confine con la Turchia: “È come se Erdogan lo facesse per fare piacere a Trump, dubito sarà rispettata”, sintetizza.
I numeri dell’export di armi italiane alla Turchia
Dopo l’inizio dell’operazione militare della Turchia contro i curdi siriani, alcuni Paesi europei hanno deciso di interrompere la vendita di armi ad Ankara: Francia, Germania, Norvegia, Paesi Bassi. Anche l’Italia, principale esportatore di materiali bellici ha scelto di unirsi. Ma potrebbe non essere così semplice. Secondo i dati contenuti nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, presentata, come previsto dalla legge, dal Governo pubblicamente ogni anno, nel 2018 l’Italia ha esportato armi in Turchia per un totale di 362 milioni e 297 mila euro. Un rapporto che, negli anni, è andato costantemente crescendo: quasi 129 milioni nel 2015, 133 nel 2016, 266 nel 2017, fino al boom dell’anno scorso. Bombe, munizioni, armi, aeromobili, software, solo per fare qualche esempio. “Un dato non può essere sottovalutato: Italia e Turchia sono nella Nato, questo fa sì che, a fronte dei trattati firmati, ci siano comunque Paesi privilegiati per l’esportazione di armi. Non solo, ci sono programmi intergovernativi, due nello specifico coinvolgono sia Italia sia Turchia: c’è quello per lo sviluppo e la produzione di radar di difesa aerea e c’è il più noto Joint Strike Fighter, vinto dal caccia Lockheed Martin F-35 Lightning II, prodotto in Usa, Gran Bretagna e Italia, dalla Leonardo, controllata al 30 per cento dello Stato”.
Tra Medio Oriente e Turchia
Le implicazioni di un ipotetico stop all’export di armi in Turchia, spiega Parazzini, non sono solo militari, ma anche politiche. “La Turchia è nella Nato dal 1952. I rapporti, di base distesi, si sono complicati negli ultimi anni: ci sono stati screzi con gli Stati Uniti e con l’Unione Europea, c’è stato il tentato golpe di qualche anno fa e la conseguente recrudescenza di una violenza interna, che ha messo fine al processo per portare la Turchia in Europa. Detto ciò, la Turchia ha una posizione strategica, tra Mar Nero, Iran, Medio Oriente, Arabia Saudita, solo per fare qualche esempio. Tra l’altro Ankara è l’unico alleato Nato in Medio Oriente”. Non va sottovalutato nemmeno il suo rapporto con la Russia, tra momenti di grandi conflittualità e altri di distensione. Poco meno di 3 anni fa la Turchia ha abbattuto un aereo russo sul confine con la Siria, mentre nel conflitto in corso Putin ha scelto di appoggiare le operazioni di curdi e Assad: “Quello che preoccupa la comunità internazionale è l’imprevedibilità di Erdogan – spiega Parazzini – per questo non è facile prendere decisioni. Le implicazioni sono tante per l’Italia, ma lo stesso discorso vale, per esempio, anche per Francia e Germania, stato con una fortissima presenza di persone di origine turca”. E poi ci sono i miliardi europei dati alla Turchia per bloccare i flussi migratori, alla base del ricatto di Erdogan di una settimana fa che minacciava di far arrivare oltre 3 milioni e mezzo di profughi in Europa se l’Unione non avesse provveduto a mandare la nuova tranche di aiuti (3 miliardi di euro).
L’industria bellica in Turchia
Secondo un recente rapporto del Sipri, l’Istituto nazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, tra 2009 e 2018 la Turchia ha aumentato i fondi statali destinati al materiale bellico del 65 per cento, arrivando a 17 miliardi di euro all’anno, di fatto diminuendo la sua dipendenza da altri Paesi. Si stima che la Turchia controlli l’1 per cento del mercato globale di materiale bellico, 14 esimo Paese esportatore al mondo (l’Italia è nona): “Nella top 100 di imprese mondiali che producono nel settore nelle armi pubblicato da Sipri (la classifica non include la Cina perché non esistono dati attendibili a riguardo, ndr), sono recentemente entrate due realtà turche, che nell’ultimo anno hanno anche guadagnato posizioni. Sono due aziende controllate dal governo”.
“In generale, gli embarghi alla vendita di armi di questi anni hanno pochissima efficacia – ammette Parazzini –. Molti embarghi sono stati aggirati in maniera scandalosa: c’è un mondo sommerso, talvolta alimentato dagli stessi governi, che garantisce la sopravvivenza di copiosi flussi non controllati di armi. Senza contare il problema delle triangolazioni”. La legge prevede che il destinatario finale di armi non possa rivenderle se non espressamente autorizzato dall’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento del ministero degli Esteri: in pratica, il cliente finale deve firmare e inviare al ministero un foglio firmato entro 6 mesi dalla consegna del materiale. In sostanza, i controlli non sono così serrati né severi.