Dopo il rapporto Censis. Quello che non va e quello che servirebbe
Quel che serve oggi è “una responsabilità politica che non abbia paura della complessità” e che quindi “sappia riconoscere le diversità”. Perché – e qui il Rapporto cita Gianni Rodari – “la lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra”
Dopo e oltre il rancore, è il momento della cattiveria. È la conclusione a cui arriva il più amaro dei Rapporti che il Censis abbia presentato negli ultimi anni. Naturalmente l’Italia è ancora ricca di risorse positive, umane e sociali prima ancora che economiche. Eppure è arduo dare torto al Censis quando rintraccia i segni di un “cattivismo diffuso” che “erige muri invisibili, ma spessi” e che “sdogana i pregiudizi, anche quelli prima inconfessabili”. Oppure quando descrive “una sorta di sovranismo psichico” che “talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio”.
L’analisi del Rapporto è tutt’altro che indulgente nei confronti di un “sistema sociale” che “attraversato da tensioni, paure, rancore”, “guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità”. Anche l’aggettivo “psichico” è stato scelto per sottolineare che il problema viene prima della politica e ha “profonde radici sociali”. Ma il Rapporto non fa sconti neanche alla politica. Anzi. Parla esplicitamente di una “politica dell’annuncio”, priva di quella “dimensione tecnico-economica” – nel linguaggio corrente la chiameremmo “competenza” – che è necessaria perché l’annuncio diventi progetto e possa essere concretamente realizzato. Del resto, le due “delusioni” che il Censis individua come inneschi dell’incattivimento collettivo, chiamano pesantemente in causa la politica, sia per quanto riguarda lo “sfiorire della ripresa”, sia per l’atteso e mancato “cambiamento miracoloso”. La più insidiosa responsabilità della politica, tuttavia, è quella di aver alimentato e cavalcato la rabbia sociale, di essersi persa “in vicoli di rancore o in ruscelli di paure” invece di misurarsi con “la sfida complessa di governare”.
Il Rapporto rileva come il “consenso elettorale” e il “successo nei sondaggi politici”, in Italia ma non solo, siano legati essenzialmente a due fattori. Il primo è il mito della “nazione sovrana” come “garante di fronte a ogni ingiustizia sociale”, fondato su “una interpretazione arbitraria ed emozionale” secondo cui “le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza sono contenute tutte nella non-sovranità nazionale”. Su questo terreno le responsabilità della politica sono molto intuitive e le conseguenze, anche economiche, le stiamo vedendo giorno per giorno, per esempio nell’autolesionistico atteggiamento assunto nei confronti dell’Europa. Il secondo fattore , secondo il Censis, è “la società piatta come soluzione del rancore”. Qui, forse, è necessario spendere qualche parola in più.
La “società piatta” nasce dall’illusione di poter combattere le disuguaglianze con un egualitarismo ideologico imposto dall’alto, che finisce al contrario per mortificare l’iniziativa dei soggetti sociali, per ridurre gli spazi di pluralismo, per disconoscere le differenze. È una società senza mediazioni e senza corpi intermedi, che “vive una crisi di spessore e di profondità”. Invece quel che serve oggi è “una responsabilità politica che non abbia paura della complessità” e che quindi “sappia riconoscere le diversità”. Perché – e qui il Rapporto cita Gianni Rodari – “la lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra”.