Dazi, confini e ritorsioni. Quando i “Grandi” guardano al consenso interno
Dalla guerra dei dazi al rifiuto del debito pubblico statunitense (ritorsione finora negata) il passo è breve, la tensione commerciale si estenderebbe anche alle valute con lo yuan cinese volutamente indebolito per favorire le esportazioni. Tutto questo non sfugge a Trump che, ancora rivolto al suo elettorato interno, deve mostrare di dare seguito alle promesse di "America First". Mostrando i muscoli, sapendo che gli altri mostreranno i loro
Guerra dei dazi, guerra commerciale, possibile guerra valutaria o guerra di spie fra la Russia e l’Europa. Tutto preoccupante. Niente di irreparabile – si potrebbe dire – rispetto a una vera guerra militare. Non vanno sottovalutati gli antagonismi che si stanno sviluppando fra le grandi potenze (Usa-Cina, Russia-Europa) perché vanno di pari passo con elettorati interni che stanno premiando la spinta emotiva nazionalistica. L’”America first” di Donald Trump è da sempre “Russia First” di Vladimir Putin, in linea con “Britain First” rispondono alle stesse parole d’ordine Ungheria e diverse aree europee. La Cina vive il suo orgoglio nazionale con una forte espansione all’estero.
Non è il clima migliore per creare amicizie fra i popoli e i Governi, per intervenire congiuntamente sulle grandi questioni planetarie e per risolvere i conflitti locali. Il Protezionismo spinge l’acceleratore della cultura nazionale e dei confini, lascia poco spazio alla comprensione delle reciproche ragioni. L’utilizzo in grande stile di dazi di contrasto alle merci tradizionali e alle tecnologie va ben oltre le ricadute sull’economia.
Anche volendo osservare l’escalation sui dazi fra Usa e Cina con le sole lenti dei numeri, è evidente che il beneficio parziale dell’oggi (tutto da verificare) può scontrarsi con la crescita globale.
Difficile immaginare gruppi imprenditoriali indifferenti a un contesto mondiale di chiusure delle frontiere. Chi ha investimenti in corso nelle aree contese tenderà a frenarli, chi non ha ancora deciso prenderà altro tempo. In apparenza la protezione delle produzioni locali, appesantendo la concorrenza estera, spinge l’occupazione interna e accontenta le imprese in affanno. Se alcune traggono benefici, altre – le più competitive e innovative nell’export – rischiano di veder mortificati gli sforzi di presenza in alcuni grandi mercati. Con un governo ostile, che scoraggia l’interscambio fra grandi aree, le imprese estere non hanno interesse a rafforzare le partnership. Il delicato ingranaggio del commercio internazionale – mix di economia, diplomazia, regole e buona volontà – rischia di incepparsi.
Se i numeri saranno quelli indicati nella prima parte del contenzioso (le sanzioni Usa sui 1.300 prodotti cinesi valgono circa 100 miliardi e la risposta di Pechino per 50 miliardi su 106 prodotti Usa) in due anni le due macro aree potrebbero perdere circa 30 miliardi di dollari, solo in parte a beneficio di Paesi terzi (Italia compresa) sganciati dalla prova muscolare fra i due giganti. Sempre che l’Europa non resti schiacciata dal botta e risposta fra Continenti e che la spirale al ribasso non colpisca tutti.
La minacciosa corsa alle ritorsioni può fermarsi e rientrare? Così come Usa e Corea del Nord, a un passo dal conflitto militare, hanno abbassato le armi?
La business community Usa sta avvertendo il presidente Trump che il gioco al rialzo “può sfuggire di mano” e che in fin dei conti ci sono ancora margini per congelare l’applicazione dei dazi.
Altre valutazioni potrebbero favorire un ridimensionamento delle tensioni: Pechino possiede una cifra considerevole del Debito pubblico statunitense, è il secondo prestatore dopo la Fed (cioè la banca centrale Usa). Dalla guerra dei dazi al rifiuto del debito pubblico statunitense (ritorsione finora negata) il passo è breve, la tensione commerciale si estenderebbe anche alle valute con lo yuan cinese volutamente indebolito per favorire le esportazioni. Tutto questo non sfugge a Trump che, ancora rivolto al suo elettorato interno, deve mostrare di dare seguito alle promesse di “America First”. Mostrando i muscoli, sapendo che gli altri mostreranno i loro.
Paolo Zucca