Dalla deterrenza alla provocazione: Washington, Pechino e le “dissonanze cognitive”
Le esternazioni di Biden e le recenti visite di Pelosi e Markey a Taipei hanno innescato un crescendo di rappresaglie da parte di Pechino
La temperatura politica si surriscalda ulteriormente con la disfida tra Washington e Pechino, tramite una testa di ponte stavolta individuata in Taiwan. Scomponendo analiticamente il fenomeno, sull’orizzonte strategico troviamo la tenzone paradigmatica che impegna una potenza egemone a frustrare le ambizioni di un soggetto reclamante pari dignità per le proprie rivendicazioni. Accanto alle note ragioni storico-simboliche che investono Taiwan, sul piano tattico è in gioco il controllo di un quadrante marittimo che assicura il predominio a stelle e strisce nel Pacifico, oggi insidiato dalla Cina come ieri dal Giappone dell’Operazione Z su Pearl Harbor.
Eppure il Gigante asiatico non è l’Impero del Sol levante, giacché, in luogo della brutale conquista, ha scelto di accreditarsi come paladino di un modello egemonico “leggero”, alternativo a quello adottato dagli Usa: piattaforma ideologica a uso (non solo) esterno con cui, con la crisi finanziaria del 2008, la Cina ha intensificato la propria assertività geopolitica, quale fisiologica evoluzione del primato sviluppista – in avvio agevolato dalla Casa Bianca stessa in funzione antisovietica.
Le esternazioni di Biden e le recenti visite di Pelosi e Markey a Taipei hanno innescato un crescendo di rappresaglie da parte di Pechino, ma il Partito comunista non intende mutare il registro della narrazione controegemonica. Piuttosto Washington, ricorrendo con inedita frequenza alla provocazione, rischia di suffragare lo stigma di protervia che Pechino le addebita per promuoversi a campione di emancipazione antimperialistica.
Contraddire la politica dell’“Unica Cina”, alimentando anzi le spinte locali per il mutamento dello status internazionale in vista delle elezioni del 2024, ribadisce una politica estera prettamente anti-cinese, meno attenta a guidare le sfide planetarie per cui tutti i governi sono chiamati a collaborare, peraltro occasione per mostrare la validità del proprio modello civilizzazionale. Alimentare l’insicurezza nelle cancellerie (“sodali” e non) e nei mercati, diffondere nell’opinione pubblica internazionale il fatalismo della “crisi inevitabile”, dando anzi l’impressione di volerla accelerare con piglio millenaristico, non si addice alla postura di un leader egemonico, che invece si legittima in termini di affidabilità e risolutività.
Se c’è un tratto di continuità fra l’amministrazione Trump e quella di Biden, esso consiste proprio nella sinofobia. Con l’aggiunta, in quest’ultima, della provocazione come strumento di demarcazione e mobilitazione degli schieramenti. Estranea al neoisolazionismo del Tycoon, l’ansia da reclutamento divisivo ripropone la politica dei blocchi, eppur nuova, ove nega alla controparte una legittimazione di rango e garanzie di reciprocità. Le spiegazioni di tale atteggiamento trasversale negli apparati Usa possono essere diverse, ma non è escluso che attengano in parte alla “dissonanza cognitiva” invalsa con l’aspettativa escatologica in un futuro unipolare all’indomani del crollo sovietico. Refrattaria alle smentite come pure alla rassegnazione, la convinzione di essere a un passo dalla “fine della storia” in un mondo senza più rivali si colloca ambiguamente tra la predizione e il desiderio, suggerendo di agire in negazione delle evidenze contrarie: nel presente, velut si Sina non daretur. La provocazione (quale ostentato rifiuto) della realtà da confutare impedisce dunque la combinazione di deterrenza e distensione, che invece ha il pregio di suggerire all’avversario i costi dell’ostilità e i benefici della convergenza.
In risposta agli impegni siglati dalle delegazioni Usa a Taipei, la Cina già annuncia il ritiro dai programmi comuni nei campi della ricerca, della sicurezza e del contrasto al crimine transnazionale, mentre, come una profezia che si avvera con l’aiuto di chi la teme, la vicinanza alla Russia varca la soglia, sino a ieri fuori agenda, della cooperazione militare. Sin troppo ovvio paventare scenari apocalittici, ma ci si chieda almeno, senza miopia, delle economie sinodipendenti che, se messe alle strette rispetto alla “scelta di campo”, si troverebbero a fronteggiare recessioni con eventuali destabilizzazioni politiche.
Del resto, le polarizzazioni provocate con dozzinale disinvoltura non giovano neanche al dibattito pubblico democratico, inquinato dall’autocensura degli analisti assillati dagli oneri del conformismo “politicamente corretto”: da un lato immiserendo il confronto in una democrazia adulta, dall’altro ottenendo la radicalizzazione delle opinioni ostracizzate.
Controindicazioni di “dissonanze cognitive” che non si addicono a una leadership egemonica consapevole di sé e della realtà epocale, all’altezza di responsabilità davvero globali, nell’interesse proprio e di tutti.
Giuseppe Casale