Come Ulisse legato: i vincoli tattici di Putin e Zelensky
È noto a tutti l’episodio omerico in cui Ulisse ordina che lo si leghi all’albero della nave per non cedere al canto delle sirene.
È noto a tutti l’episodio omerico in cui Ulisse ordina che lo si leghi all’albero della nave per non cedere al canto delle sirene. In esso ci sembra di riconoscere l’archetipo comportamentale del politico stretto da pressioni contrastanti che, per sottrarsi tatticamente all’impasse, si impone un vincolo in apparenza estrinseco. Questo il dato che oggi accomuna i presidenti di Russia e Ucraina.
Il primo, decidendosi solo ora per le annessioni (ricordiamo che pretesto formale dell’invasione fu proteggere l’indipendenza delle repubbliche del Donbass), ha ratificato un punto di non ritorno nelle pretese sull’Ucraina. Sul versante interno, la mossa placa le spinte dei falchi desiderosi di ben altre iniziative, formalizzando una guerra patriottica che giustifica la mobilitazione dei riservisti. Su quello esterno, implicando l’uso difensivo dell’atomica, evidenzia agli occhi degli Usa la linea rossa tracciata dal Pentagono a febbraio: sfiancare Mosca ma non al prezzo dello scontro diretto. Forse è il segnale con cui si chiede di trattare. Neanche così cifrato, se si legge per intero il discorso annunciante i decreti d’annessione. Ma trattare con chi? su cosa?
Una risposta ipotetica può discendere dal parallelo con Zelensky e ciò che ne segue. Specularmente anch’egli pare un Ulisse legato, stante il decreto – adottato subito dopo le annessioni – con cui si proibisce di negoziare con Putin. Scarsi i sussulti in Paesi che, pur ripudiando costituzionalmente la guerra, armano un governo che ora vieta la pace per legge. Eppure la misura interviene quando Zelensky, speso ogni mezzo per convincere che pace equivale a riconquista totale (Crimea inclusa), capisce che un conto è galvanizzare, altro governare gli eventi. In un frangente di riscossa in cui non si può ordinare l’alt, avendo sul collo il fiato degli oltranzisti di casa. Proprio adesso che Poroshenko, l’ex presidente da lui sconfitto nel 2019, torna sulla scena, un tempo calcata infarcendo i comizi di termini come “segregazione civile” contro i russofili dell’est. Torna per promettere sulle emittenti un sostegno peloso all’ex rivale, censurando chi pensasse di pronunciare la parola “negoziato”.
Sull’altro fianco di Zelensky premono gli Usa. Dopo i sabotaggi ai Nordstream, avevamo ipotizzato il segno di un mutato atteggiamento della Casa Bianca, paga di veder saltare i “ponti” tra Europa e Russia, in ultimo enfatizzati dalle “iniziative solidali” durante la pandemia. Adesso il salto di un ponte non metaforico, quello di Crimea, rischia di rilanciare il sostegno al presidente da parte della società russa, sensibile al tema “terrorismo” (l’estirpazione di quello ceceno guadagnò a Putin l’abbraccio della nazione). Più in generale, il timore di perdere il controllo della situazione spiegherebbe i messaggi di avvertimento a Kiev: il Wall Street Journal che imputa ai servizi ucraini l’attentato a Dugina e l’inedita sconfessione di notizie artefatte, come quella sui denti d’oro scoperti nella “Auschwitz” di Kharkiv, poi reclamati dal dentista derubato. Si aggiungano i timori elettorali di Biden per il trumpismo che rivendica “America first” senza destabilizzare l’orbe: ecco dunque Lavrov tornare dopo cinque giorni di interlocuzioni riservate a Washington e dichiarare che la Russia attende un’iniziativa distensiva.
Il decreto antinegoziale permetterebbe a Zelensky di rassicurare gli ultras di casa e insieme di sfilarsi, per agevolare prima o poi le trattative tra Russia e Usa, in vista di un armistizio sine die: un limbo sospensivo di tavoli inconcludenti, atti a congelare il conflitto rinviandone le soluzioni a quando Kiev e Mosca avranno altri leader, meno “legati” e compromessi. Difficile, infatti, che Putin revochi le annessioni, infliggendosi un danno d’immagine enorme, mentre le popolazioni del Donbass verrebbero consegnate a una caccia ai collaborazionisti penosa più della guerra civile condotta dal 2014 nell’oblio occidentale.
Su tutto il condizionale è d’obbligo, per via di variabili imponderabili. Complice anche il clima fomentato, nelle more della diplomazia, da politici e giornalisti con l’elmetto, che eccitano tifo da stadio e discettazioni da bar sport sul nucleare strategico e tattico. Che non è esorcizzare la paura, ma normalizzare la violazione di un tabù che, proprio perché tale, nella Guerra fredda tenne saldi i nervi delle due superpotenze. Avvilisce il degrado etico-culturale del dibattito, specie in un’Ue che dilapida l’idea europeistica, fiorita dopo due guerre mondiali per evitarne altre. Rincuora che, Austria in testa, i Paesi membri estranei alla Nato si siano offerti in blocco – giacché parte terza (sic!) – per mediare. Ma l’atmosfera inquinata dal bellicismo prêt-à-porter, se fa digerire i sacrifici di una guerra evitabile senza grandi sforzi di ipocrisia, d’altra parte può retroagire sui decisori e dettare risposte inconsulte agli imprevisti, aggrovigliando gli eccitatori nei loro stessi fili. Quando la retorica commemora, grave e mesta, quella che Benedetto XV definì l’Inutile Strage, si ricordi l’euforica marcia incontro al disastro fratricida, preparata nei caffè, nelle piazze e sui giornali di allora. Se ne faccia tesoro, senza le rimozioni autoassolventi che asciugano le lacrime di coccodrillo.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università Lateranense