Cambiare l’Italia, per non dover cambiare Paese. Famiglie che emigrano e pongono interrogativi sul futuro
Una conversazione fuori da scuola, con una mamma asiatica, quattro figli dalla prima media ai due anni di età e un marito che lavora a pieno ritmo nonostante una situazione clinica di fragilità: «Gli open day delle scuole dell’infanzia? Non credo che parteciperò – riferisce a mia moglie – anzi, penso che lasceremo l’Italia. Qui facciamo una vita misera, se avessimo un’emergenza economica non sapremmo come affrontarla. E poi c’è la scuola… se non fosse per me, mia figlia non parlerebbe l’inglese. Insomma, che futuro potrò offrire qui ai miei figli?»
Queste parole sono diventate presto il principale argomento di confronto in casa, tra di noi e con amici a cena o di passaggio. Le ragioni sono le più svariate. Ci sono i risvolti che più attengono alla sfera personale: il coraggio e la disperazione di queste persone che già hanno lasciato il loro Paese (poco importa se sia il Pakistan o il Bangladesh) per dare la vita ai propri figli qui in Italia e che ora sono pronte a sradicarsi un’altra volta: di tornare in patria non se ne parla, ma nemmeno di procedere a tentoni sul limite del precipizio. Ma ci sono anche le problematiche che il nostro Paese presenta, irrisolte, da decenni: «Famiglie con tre figli a rischio povertà» è un titolo di Repubblica, ma non di oggi bensì del 2007, quando riportava i numeri del Rapporto Caritas-Zancan secondo cui allora il 27,8 per cento di nuclei familiari con tre minori (il 42 per cento al Sud) faticava a sbarcare il lunario. Da allora a oggi – tra crisi economiche, guerre, attentati, crisi delle materie prime e dell’energia – è complesso pensare che le condizioni siano migliorate. A questo si aggiunge il fatto che, lo certifica l’Istat, tre famiglie straniere su dieci in Italia sono in povertà assoluta, una cifra cinque volte maggiore rispetto agli italiani. Per questo si parte: sei milioni di italiani (più del 10 per cento del totale) vive all’estero e, come abbiamo scritto nel numero del 19 novembre, si tratta spesso di giovani che escono per vedere il mondo, per fare esperienza, ma anche per svolgere il mestiere che qui non trovano o per godere dei maggiori diritti e contributi che altri Paesi garantiscono a chi si trova in quella fase della vita in cui si “mette su” famiglia. Solo lo scorso anno sono usciti più di 36 mila 18- 34enni italiani, i maggiori in partenza sono in questa fascia d’età, cercano opportunità per l’appunto, ma a volte anche sostegni per una quotidianità complessa com’è quella di chi ha quattro figli. Che ne sarà di noi e dei nostri figli? Situazioni come quella descritta solleva interrogativi come questo. Chi cerca casa, oggi sbatte contro il muro dei tassi su mutui e prestiti e sui prezzi di materie prime e manodopera ancora gonfi causa Superbonus 110%. Chi approccia una concessionaria di automobili spunta “offerte” a 13 mila euro per una Panda, mentre chi vendesse un’auto di marca, immatricolata fino a tre anni, ben tenuta, rischia di prendere più di quanto ha speso in fase di acquisto. Il mercato libero per quanto riguarda la fornitura di gas, stando alle forze politiche, farà aumentare le spese ancora una volta. L’orizzonte appare nebuloso e la dinamica demografica non lo tinge certo di rosa. L’ultimo rapporto Censis presentato qualche giorno fa ci ricorda che da qui al 2050 spariranno 3,7 milioni di persone con meno di 35 anni e al tempo stesso aumenteranno di 4,6 milioni di persone con più di 65 anni, di cui 1,6 milioni con più di 85 anni. Ci saranno 8 milioni di persone in età attiva rispetto a oggi: che modello economico e previdenziale potrà mai reggere? Lo stesso rapporto descrive gli italiani come «sonnambuli», ciechi di fronte ai presagi che dovrebbero intimarci a cambiare strada. In preda all’«ipertrofia emotiva», per cui tutto è emergenza e quindi nulla lo è più veramente. La vera questione oggi è cambiare l’Italia per non dover cambiare Paese. Altrimenti, non solo i nostri figli che oggi sono alle elementari, ma tra qualche anno anche noi quarantenni dovremo pensare alla Finlandia o alla Svezia. Come questi amici asiatici, che non ce la fanno più.