Bimbo morto a Roma per “challenge”. Toro: “Nonsense e blackout che anestetizza e impedisce di vedere gli altri”
Spasmodica ricerca dell’eccesso e del like a tutti costi, e assoluta mancanza di sensibilità sociale e responsabilità nei confronti degli altri. Ma anche “collasso del senso” e “scollamento totale dalla realtà”. Per la psicoterapeuta c’è questo – ed altro – dietro la folle sfida che ha causato la morte di un bimbo di 5 anni da parte di un Suv con a bordo 5 youtuber, schiantatosi contro l’auto su cui viaggiava il piccolo con la mamma e la sorellina
Sfide nonsense e sempre più estreme. L’ultima, il 14 giugno a Roma, ha causato la morte di un bimbo di 5 anni nell’incidente provocato da cinque giovani youtuber a bordo di un Suv Lamborghini, conosciuti come “TheBorderline”, impegnati in una challenge sul canale YouTube (oltre 600mila iscritti) e TikTok (260 mila) dove postavano le loro “imprese”. Sulla dinamica dell’incidente sta indagando la polizia locale; ciò che si sa è che la sfida consisteva nel resistere, nonostante la stanchezza, 50 ore nel Suv preso a noleggio alternandosi nella guida. Nel pomeriggio di mercoledì l’auto ha investito una Smart guidata da una 29enne con a bordo i due figlioletti. Morto il bimbo di 5 anni, ferita la sorellina di 3. Il ragazzo in quel momento alla guida del Suv, indagato per omicidio stradale, è risultato positivo ai cannabinoidi.
Per Maria Beatrice Toro, psicoterapeuta e docente di psicologia di comunità presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione Auxilium interpellata dal Sir, si tratta di “una situazione di una gravità inaudita, causata da una sfida totalmente priva di senso. Fa parte della giovane età una fisiologica distorsione della valutazione del rischio. Dal punto di vista cognitivo, è intorno ai 25 anni che si sviluppano funzioni come quelle del controllo, della mentalizzazione, della responsabilità, del valore della vita. Prima di allora i ragazzi tendono a sentirsi invulnerabili, immortali, convinti che incidenti o eventi avversi accadano solo agli altri. In loro si annida una sorta di psicologia della sfida che c’è sempre stata, ma che oggi si è trasformata in challenge e non si misura più sul proprio valore, abilità o coraggio, ma sulla visibilità, le visualizzazioni e i like che si ottengono sui social”.
“Invulnerabili” (forse), ma anche totalmente irresponsabili e incuranti delle conseguenze delle proprie azioni su altre persone…
Purtroppo sì. Da questa tragica vicenda emerge inoltre il tema della mancanza di sensibilità sociale nei confronti degli altri.
La ricerca esasperata dell’emozione e del brivido a tutti costi, amplificata dall’idea della viralità, crea una sorta di blackout che non ti fa più vedere gli altri.
Tutta questa adrenalina inebetisce, anestetizza la sensibilità e la responsabilità nei confronti del contesto in cui si vive, per cui non si viene minimamente sfiorati dall’idea del rischio di mettere in pericolo altre persone. In questo atteggiamento vedo una dimensione mortifera di incapacità di amare la vita propria e altrui. E poi il non senso.
Che cosa intende dire?
Che vuol dire imporsi di resistere 50 ore in macchina? Oltre alla sfida tipicamente adolescenziale spinta all’estremo, qui c’è anche un collasso di significato. Non si tratta di dimostrare capacità particolari; siamo in una dimensione di psicologia dell’assurdo.
Quanto più la sfida è nonsense, tanto più diventa virale.
Uno scollamento totale dalla realtà: ottenere la massima visibilità con il minimo sforzo senza curarsi delle conseguenze sulla collettività.
Come siamo arrivati a questo?
C’è stata una frattura tra le generazioni. Non si parla più la stessa lingua e questi fenomeni crescono in totale autogestione escludendo il mondo adulto percepito come una realtà che non ha nulla da dire, lontana dagli adolescenti, incapace di capirli. Un mondo dal quale i ragazzi si sentono tenuti ai margini, frustrati nella loro progettualità e speranza di vita.
Ma un ragazzo senza progetti è una persona pericolosa
perché se non canalizza le sue grandi energie e i suoi impulsi vitali nella costruzione del proprio futuro, finirà per canalizzarli in un’impresa comunque gratificante, non importa quale. Oggi gli adolescenti sono disorientati, non hanno più né sogni né speranze; per questo la loro energia si incaglia per poi esplodere in situazioni a rischio e senza senso come queste.
Come intervenire per tentare di sanare questa frattura?
Restituendo ai ragazzi la possibilità di sognare; anzitutto facendoci vedere, noi adulti, in grado di aiutarli a costruire i loro progetti e a trovare il loro posto nel mondo.
I nostri figli vivono una realtà nella quale finché sono piccoli non succede nulla, sono iperprotetti e ipergratificati; quando crescono e si trovano invece di fronte ad un mondo che percepiscono non accogliente, a volte ostile, si rifugiano in una cultura autoreferenziale. Noi adulti dovremmo sforzarci di ascoltarli, entrare in dialogo con loro, comprendere il loro mondo per tentare di vincere questa logica di autoreferenzialità. Ma ciò non si improvvisa, è un percorso che si costruisce gradualmente fin dalla culla. Se nel percepire noi adulti come coloro che hanno rubato loro la vita c’è un aspetto di irrazionalità, non è del tutto irrazionale considerarci incapaci di dare loro ispirazione. Dobbiamo tornare a farlo perché è proprio l’ispirazione, la vocazione esistenziale, a dare significato al nostro agire, insieme alla valorizzazione delle relazioni, al nostro stare con gli altri, al senso della comunità di cui facciamo parte. Occorre inoltre ricreare luoghi per la comunità perché oggi la maggior parte dei ragazzi frequenta di fatto un’unica comunità: quella virtuale.