Assumere o non assumere? Il caso dei dati sull’occupazione di settembre che ha pubblicato l’Istat
Stanno tutti alla finestra per capire che 2023 sarà, vedendo brutte nubi all’orizzonte, anzi già sopra la testa.
Una bella notizia può nasconderne una meno bella? Certo, come ad esempio nel caso dei dati sull’occupazione di settembre che ha pubblicato l’Istat.
La bella notizia è che l’occupazione cresce e si stabilizza. In un solo mese si sono registrati 46mila occupati in più; oltretutto calano i cosiddetti “inattivi”. In un anno, infine, i posti di lavoro sono aumentati di 316mila unità (200mila “permanenti”). Di queste, circa un terzo hanno interessato le donne e due terzi gli uomini; e pure il tasso di occupazione degli under 35 è in crescita.
Insomma, buone notizie figlie di un’economia che sta tirando nonostante tutto, e che vede l’Italia crescere a ritmi sconosciuti al resto dell’Europa. Questo biennio sarà ricordato negli annali come strepitoso, per il nostro prodotto interno lordo. E il bello oscura un po’ quel che comunque stona nel contesto: le difficoltà dell’occupazione femminile, le difficoltà a reperire manodopera in diversi settori economici, una demografia calante che “aiuta”: paradossalmente ci sono sempre meno italiani che cercano lavoro perché ci sono sempre meno italiani in età da lavoro…
Ma la notizia meno simpatica è un’altra, nascosta dietro al dato del calo dei contratti a tempo determinato: meno 20mila in un solo mese. Perché preoccupa? Perché s’inverte improvvisamente un trend sempre crescente, per cause che non appaiono così serene da valutare.
È vero che, soprattutto nel Nord e in quelle province che corrono a ritmi forsennati, le aziende stanno stabilizzando molti contratti di lavoro: si rischia di perdere personale valido e soprattutto non sostituibile. E, sempre in quelle terre, si registra lo spostamento di figure lavorative dal terziario (soprattutto il meno “avanzato”) alle fabbriche, che danno più sicurezza e stanno cercando manodopera.
Ma più di un esperto teme che la realtà sia un’altra: il sistema economico (soprattutto le medio-grandi aziende) sente odore di bruciato. Ipotizza – per ragioni varie – un calo di fatturati e si tiene “snello”. Insomma non investe più in quella flessibilità che da anni è diventata la condizione di passaggio verso la stabilità: ti testo e poi ti assumo.
Non è scontato che sia così, non è scontato che l’Italia freni, magari bruscamente. Ma il sentore è questo. Stanno tutti alla finestra per capire che 2023 sarà, vedendo brutte nubi all’orizzonte, anzi già sopra la testa. Molto dipenderà da fattori non valutabili e assai esterni. Primo fra tutti il caro-energia che sta già pesando, se è vero (come è vero) che l’industria ha cominciato a consumare meno gas ed energia elettrica. Buona notizia? No, per niente.