Ancora armi all’Ucraina, tra timori e calcoli
Data la quantità di quelli andati distrutti, diversi Stati malcelano preoccupazione sulla capacità di reggere il ritmo senza sguarnire i propri arsenali.
L’ennesimo rifornimento di armi all’Ucraina, anche qualitativamente superiore ai precedenti, si appresta a partire mentre le forze russe tornano a introdurre mezzi più moderni, dopo la tattica di logoramento spesa nei mesi scorsi. Le conquiste sulla linea del fronte – sulle prime dipinte dai servizi britannici come soltanto simboliche – puntano a interrompere la logistica nemica, sbilanciando il dispiegamento ucraino a est. Kiev è sempre più a corto di uomini, tanto da spingere lo stato maggiore polacco a proporre di reclutare i rifugiati ucraini in Europa, addestrarli e inviarli sul campo.
Considerando la provenienza occidentale della maggior parte dei dispositivi bellici residui, esponenti di governo hanno dichiarato il Paese un membro Nato de facto. Eppure, data la quantità di quelli andati distrutti, diversi Stati malcelano preoccupazione sulla capacità di reggere il ritmo senza sguarnire i propri arsenali. Per tenere il passo, dovrebbero adottare un’economia di guerra, soluzione impensabile, tanto più in Europa, dove la prospettiva di alimentare a oltranza la distruzione di uno Stato fallito appesantisce le previsioni della ricostruzione, per la quale Bruxelles ha già promesso stanziamenti. Il che equivale a pagare il conto due volte, come d’altronde accade alla parte battuta, onerata dalle riparazioni di guerra: ulteriore elemento materiale utile a individuare nel sogno europeista l’attore senz’altro sconfitto, pur nato in vista di pace, protagonismo economico e concordia interna.
La Germania, esitando sui carri Leopard 2, contribuisce alla delusione di Zelensky, che qualche settimana twittava del più bel regalo di Natale che potesse attendersi con gli impegni euroatlantici. Berlino non è la sola a tentennare, temendo che il circolo vizioso produca reazioni russe più devastanti, dunque nuovi e più esosi aiuti militari, sino a raschiare il fondo. Certo è la più esposta alle pressioni di Polonia e repubbliche baltiche, che all’antirussismo congiungono l’interesse a spodestare i tedeschi nella gerarchia europea. Ma questi non accettano di essere strumentalizzati a copertura delle refrattarietà altrui, così subordinano la propria decisione all’invio dei carri Abrams (che Washington pure vorrebbe evitare) e si dicono disponibili ad autorizzare Varsavia a offrire i suoi di Leopard, sollevandola dai vincoli di cessione contrattuali.
Del resto, anche negli Usa c’è chi frena. Gli apparati più perplessi lasciano che il New York Times computi l’uso antieconomico dei missili da mezzo milione di dollari ciascuno, impiegati per abbattere droni che ne valgono 20mila. E non tutta la nazione accetta di staccare assegni in bianco. Per due ordini di motivi.
La “stanchezza imperiale” risveglia l’America profonda, ostile a uno Stato centrale intrusivo, la cui manomorta fiscale finanzia una politica estera giudicata prona ai potentati economici collegati a Washington. L’elezione di McCarthy a speaker della Camera dopo ben 15 votazioni (dal 1923 ne è sempre bastata una), ha provato la forza della pattuglia dei “ribelli” trumpiani che si richiamano alla suddetta sensibilità paleoconservatrice. La mossa ha funzionato, a giudicare dalle ricompense ricevute dalla risicata maggioranza repubblicana: la sfiducia allo speaker promovibile da un solo deputato, lo sblindamento delle discussioni sulla legge finanziaria, i tagli al bilancio dell’esecutivo come condizione per gli aumenti della spesa pubblica.
Inoltre nel Pentagono sopravvive lo spettro di Eisenhower che, dopo aver commissionato la simulazione del Solarium Experiment sugli scenari possibili alla morte di Stalin, optò per il contenimento, giudicando una iattura doversi occupare della voragine geopolitica che si sarebbe creata se l’Urss fosse scomparsa. Mutatis mutandis, oggi l’ipotesi di spingere sino alla debacle russa spaventa non pochi: Putin potrebbe essere defenestrato da uno degli ultranazionalisti che lo incalzano. Peggio ancora se si innescasse lo smembramento della Federazione russa: come motivare l’egemonia in Europa? Come tenere a bada 83 entità amministrativi percorsi da rivalità e tensioni interetniche, col maggiore arsenale nucleare del mondo fuori controllo? Della balcanizzazione potrebbe giovarsi la Cina, surrogandosi a Mosca nella sfera d’influenza sulle ricchezze centrasiatiche.
Pur vero che la cultura cinese aborre il caos e Pechino potrebbe specularmente temere l’anarchia dell’immenso continente, oppure paventare una Russia in orbita occidentale. Le logiche concorrono a escludere mosse risolutive, risultando più utile la condizione presente. Che evidentemente non promette di sbloccarsi in direzioni negoziali.
Raggiunto da minacce e accuse di tradimento, si è dimesso Arestovych, consigliere di Zelensky, possibilista sulla Crimea. La colpa: l’invito in tv a non esasperare la mistificazione mediatica, ammettendo che anche il missile precipitato sul condominio di Dnipro era diretto a un’infrastruttura elettrica. L’antiaerea, piazzata in città per intercettare i bersagli in fase discendente, l’avrebbe colpito facendo cadere sulla palazzina un segmento del vettore. Difficile pensare a un’ingenua sete di verità, anziché a una mossa per sfilarsi dalla rotta di collisione perseguita dai falchi che, da una parte e dall’altra, frustrano ogni spiraglio diplomatico.
Giuseppe Casale*
*Pontificia Università Lateranense