Parrocchie e ospedale. Abitare dove l’uomo è fragile
Non basta la professionalità di medici e operatori sanitari. Servono persone che tengano vivo il legame tra malati e comunità. Un impegno che non si può delegare alla sola pastorale della salute, perché è un dovere che investe ognuno di noi.
La sala d’attesa del laboratorio analisi è gremita, questo costringe a sedersi vicini. E anche se non voglio vengo investito dal mesto racconto di chi mi sta accanto. Con disarmante naturalezza, una delle interlocutrici mi rivolge la parola per farmi partecipe della conversazione.
Non mi viene chiesto un parere, né un consiglio, solo di stare in ascolto. Sono storie di malattia e sofferenza. O meglio, di malati e sofferenti, perché ogni storia ha il volto di una persona. Adulti, anziani, bambini che si son visti, più o meno all’improvviso, tagliare la strada della vita. Chiamano il mio numero, saluto e vado a fare il prelievo. Torno alle mie cose, ma il pensiero resta seduto in quella sala.
L’incontro con la fragilità è davvero un’occasione propizia per rimettere in ordine le priorità.
Aiuta a distinguere, nella complessità e confusione del vivere, il grano dalla pula. Riscoprire che ciò che conta sono le persone, le quali sono preziose anche perché vulnerabili e mortali.
Eppure parlare di questo è spesso un tabù, al punto che è ritenuto saggio far evitare l’incontro con la sofferenza ai ragazzi in formazione, per non traumatizzarli. Quando invece, proprio per il suo ineludibile valore pedagogico, avvicinare tali situazioni aiuta i ragazzi a prendere coscienza del limite e sperimentare la compassione. Quest’ultima non è questione di ragionamento, ma acquisizione graduale di un sentimento profondo: immedesimarsi nell’altro, tentare di sentire quello che l’altro prova. Un percorso guidato e graduale nel mondo della fragilità allena un adolescente a lasciarsi interpellare dal dolore dell’altro, lo rende sempre più attento, vigile, responsabile. Difficilmente dopo una visita a una lungodegenza una ragazza o un ragazzo non cederà il suo posto in autobus a un anziano o disabile. E lo farà spontaneamente, con un sorriso fiero e la consapevolezza del grande dono della salute e della gioventù.
Prima ancora che dalle nuove generazioni, però, le situazioni di fragilità chiedono di essere abitate dall’intera comunità. Farsi prossimo alle persone in difficoltà fisica e psichica e alle loro famiglie è divenuta un’emergenza sociale. Un tempo c’era la famiglia allargata. Oggi, invece, la solitudine imperante rende tutti più vulnerabili.
Forse è tempo di rendere diffuse e sistematiche le già tante esperienze di “vicinato solidale”, capaci di creare una rete di solidarietà fattiva attorno alle famiglie messe alla prova. A volte basta davvero poco, ma ben sappiamo che se affrontata da soli, anche una piccola incombenza diventa un macigno.
C’è un luogo, infine, che deve vederci particolarmente presenti ed è l’ospedale. L’ospedale è parte integrante della comunità, che deve guardarlo con simpatia e attenzione. Non fosse altro perché lì gran parte delle persone nascono, muoiono, soffrono. In ospedale le persone ci vanno perché stanno male e devono curarsi. E per questo c’è la professionalità di chi ci lavora e opera con generosità. Ma serve anche la presenza di qualcuno che mantenga vivo il legame tra queste persone e la vita comunitaria. Il ricovero non è una fermata ai box, in attesa di ritornare nel circuito della vita. Questo impegno vale particolarmente per le nostre parrocchie, che sono chiamate ad accompagnare chi entra in ospedale affinché non si recida, anche solo temporaneamente, il filo che lega tra loro i membri della comunità.
Non si può delegare alla sola pastorale della salute, ma è un dovere che investe ognuno di noi. Un modo per dare feconda concretezza alle via Crucis che celebriamo in questa Quaresima.
Stefano Bertin