Un “tagliando” per il RdC. Nota politica
Il dibattito sul Reddito di cittadinanza (Rdc) continua a essere fortemente condizionato da considerazioni di tipo ideologico.
Il dibattito sul Reddito di cittadinanza (Rdc) continua a essere fortemente condizionato da considerazioni di tipo ideologico, così che le argomentazioni razionali e fondate sui fatti stentano a emergere nella contrapposizione tra chi vorrebbe abolire del tutto la misura e chi difende in modo acritico la sua attuale configurazione.
Innanzitutto è necessario sgombrare il campo dalle questioni che appartengono alla cronaca giudiziaria e non al merito del provvedimento. L’esistenza di “furbetti” che intascano l’assegno senza averne titolo è affare che merita la più netta riprovazione sociale e un’azione di contrasto sistematica ed efficace. Sarebbe anche il caso di usare un altro termine per indicare queste persone, visti i collegamenti che talora emergono persino con ambienti criminali. Prevenzione e repressione possono essere ulteriormente potenziate rispetto a quanto finora realizzato, operando soprattutto sull’incrocio dei dati che la pubblica amministrazione allargata già possiede. Ma in un Paese in cui si evadono ogni anno 110 miliardi di tasse bisognerebbe essere più cauti prima di stracciarsi le vesti, soprattutto da parte di quei settori politico-sociali che sul Rdc emettono giudizi sommari mentre sull’evasione fiscale vanno sempre con la mano molto leggera.
Venendo al merito, risulta un po’ straniante che dopo aver sperimentato le conseguenze sociali della pandemia si possa pensare di rinunciare a una misura specifica di contrasto alla povertà, che peraltro ritroviamo negli ordinamenti di molti Stati europei. È invece convinzione diffusa, soprattutto in quegli ambienti della società civile in cui l’idea di un strumento legislativo contro la povertà affonda le sue radici (è del 2014 la proposta di un “Reddito d’inclusione sociale” da parte dell’Alleanza contro la povertà), che la misura necessiti di un tagliando. Innanzitutto bisogna intervenire sui criteri che nella prima fase di applicazione hanno prodotto il paradossale risultato di escludere una significativa quota di “poveri assoluti” a vantaggio di altre fasce che, almeno stando ai dati Istat, sono relativamente meno in difficoltà. Si tratta di ritarare la scala di equivalenze che al momento penalizza proprio le famiglie più numerose; di rivedere gli abnormi requisiti di residenza che tagliano fuori molti immigrati; di modulare gli interventi tenendo conto delle rilevanti variazioni del costo della vita nelle diverse aree del Paese.
C’è poi il versante dell’occupazione. Su questo piano il Rdc, prezioso nel contenere l’impatto economico del Covid, non ha svolto la funzione di cui era stato impropriamente caricato. I soggetti che non si sono improvvisati da un momento all’altro esperti di marginalità sociale, avevano infatti tempestivamente segnalato a una politica frettolosa e ideologizzata che non era possibile mescolare in un’unica misura la lotta alla povertà e le politiche attive del lavoro. La povertà ha molte dimensioni e cause, non è sinonimo di disoccupazione. I dati sul Rdc hanno confermato quanto in realtà già si sapeva: la maggioranza dei poveri assoluti non è oggettivamente nelle condizioni di lavorare, altro che giovani sul divano… Questo “difetto di fabbricazione” del provvedimento può essere parzialmente corretto, intervenendo in modo mirato per potenziare gli aspetti di inclusione sociale connessi al lavoro, ma resta il fatto che non si può chiedere al Rdc quel che esso strutturalmente non può dare e che invece dev’essere conseguito attraverso quelle politiche attive per l’impiego su cui il nostro Paese è chiamato finalmente a compiere un decisivo salto di qualità. Distinguere piani e obiettivi è di fondamentale importanza anche per evitare strumentalizzazioni contro una misura universale di lotta alla povertà che ha bisogno sì di aggiustamenti, ma che rappresenta per il nostro Paese una conquista rispetto a cui non si può tornare indietro.