Senza parole. Alcuni studi testimoniano un impoverimento complessivo del linguaggio giovanile
Come sottrarre all’insidia del “copiaincolla” i nostri giovani, abituati ormai a cliccare e trascinare sul foglio word ampie parti di brani rintracciati in rete creando “testi-accozzaglia” privi di revisione?
Mentre il dicastero di viale Travestere riflette sull’organizzazione dei prossimi esami di maturità e non scioglie ancora il riserbo sull’intenzione o meno di tornare alla formula pre-Covid con la presenza delle tradizionali prove scritte, le organizzazioni studentesche raccolgono firme per poter replicare anche quest’anno la modalità dell’elaborato finale unico e del maxi-orale.
Anche alcuni sindacati sostengono le istanze degli studenti e sottolineano che una disparità di trattamento nei confronti dei maturandi 2022, in un’epoca ancora funestata dalla pandemia, sarebbe fortemente discriminatoria.
Qualcuno poi chiede con vigore una vera e propria riforma del sistema di valutazione finale della scuola superiore. Insomma, le voci si rincorrono e, come accade di solito, ci si sofferma esclusivamente sul dato ultimo di una tendenza ormai in atto da tempo nella scuola italiana.
Alcuni studi testimoniano un impoverimento complessivo del linguaggio giovanile, anche se molti specialisti del settore sono pronti a giurare che ci troviamo di fronte a un cambiamento linguistico e non a un reale inaridimento della “favella”. C’è da dire, però, che la scuola, ovvero i docenti, parlano una lingua diversa rispetto a quella degli studenti e molte parole per noi generazioni del secolo scorso “consuete” oggi suonano come “desuete” negli orecchi dei nostri figli. Accade quindi che la comunicazione verbale tra le generazioni e, in particolare nelle aule, avvenga in maniera intermittente, con frequenti fraintendimenti semantici.
Non è difficile comprendere le ragioni di questa criticità che in maniera consistente sono riconducibili alla virata tecnicistica e multimediale che la nostra società ha assunto. Di fatto abbiamo a che fare con una forte trasformazione degli strumenti di comunicazione, anche di quelli primari. Oggi si parla prevalentemente per immagini, o attraverso espressioni brevi e improntate all’immediatezza.
La domanda che, a questo punto, diviene ineludibile è: serve ancora ai nostri giovani “saper scrivere” e soprattutto glielo stiamo insegnando come dovremmo? Perché in effetti prima di andare a valutare le competenze, dovremmo interrogarci sulle metodologie che dovrebbero veicolare questo tipo di apprendimento.
Il nodo da sciogliere è assai articolato. Insegnare a scrivere non è semplicemente “alfabetizzare”, la capacità di poter produrre un elaborato di tipo argomentativo non è affatto una competenza di base. Scrivere vuol dire conoscere la lingua, le parole, i significati, saper organizzare in maniera organica e coesa i propri pensieri, saper creare delle connessioni e articolare ragionamenti induttivi e deduttivi. Significa soprattutto pensare in maniera critica e personale, formulare ipotesi e verificare idee.
Un tempo a formare i giovani alla scrittura, e anche all’oralità, contribuivano discipline come la retorica e la dialettica. Oggi forse ci illudiamo che possa bastare il tema scritto in classe una volta al mese a insegnare una competenza esposta ai continui guasti delle scorciatoie offerte dal digitale. Purtroppo nello scenario attuale non è più sufficiente.
Come sottrarre infatti all’insidia del “copiaincolla” i nostri giovani, abituati ormai a cliccare e trascinare sul foglio word ampie parti di brani rintracciati in rete creando “testi-accozzaglia” privi di revisione? Il vero dramma, infatti, è che con Internet si può copiare e incollare senza neppure leggere il testo. Per non parlare poi dei siti a pagamento che offrono compiti già svolti per tutte le discipline.
Come si fa a convincere la “Google generation” a rinunciare a queste pratiche deleterie? Il problema non è soltanto italiano. Pare che in Francia, contro l’epidemia del plagio elettronico ci si concentri maggiormente sul lavoro svolto in classe, sotto il controllo vigile dei docenti, e che per le ricerche, ad esempio, si richieda la copiatura a mano con tanto di citazione di fonti.
Ma non basta, evidentemente. Occorre un lavoro più approfondito che parta sin dalla tenera età. La scuola e con essa la società deve prendere un impegno preciso orientando le nuove generazioni all’amore per le parole, per l’eloquio e per la scrittura intesa come manifestazione profonda del pensiero umano.