Natale a Lesbo. Il buco nero della Grecia
Ad Atene cambiano i governi (da Alexīs Tsipras al nuovo premier Kyriakos Mītsotakīs), ma niente cambia nell’isola dell’Egeo ad un braccio di mare dalla Turchia. Foto di Massimo Sormonta.
Quotidianamente si ripetono gli sbarchi: «Siamo alle prese con la necessità di “rianimare” alcuni adulti e bambini che arrivano provati, perché alla partenza in Turchia assumono tranquillanti non prescritti dal medico in dosi pericolose» racconta la giovane cooperante francese in diritti umani.
In autunno migliaia di persone sono approdate a Moria, il campo profughi della disperazione. E i gommoni non si fermano. Martedì scorso hanno trasportato 191 migranti, mercoledì 335 e giovedì 93 come contabilizza il bollettino di Aegean Boat Report.
Angela Quinto di Melting Pot Europa è arrivata di nuovo nell’isola: «E’ il luogo che più incarna l’incapacità dell’Europa di governare i flussi dei migranti. Dopo il 2016 con il calo degli arrivi, quest’anno nelle isole greche sono arrivati più di 45 mila persone. Abbiamo scelto la campagna Lesvos Calling come esempio di testimonianza attiva della solidarietà a partire dal Nord Est. A gennaio ritorneremo, come del resto abbiamo fatto da mesi, soprattutto per non spegnere i riflettori su questa scandalosa realtà umana».
Giovani volontari, presìdi delle ong, attivisti internazionali si spolmonano per fronteggiare situazioni che eccedono l’emergenza. Di fatto, nel buco nero dell’isola di Lesbo si consuma una vera e propria catastrofe umanitaria. Per di più nell’inerzia burocratica dell’Unione Europea, nel “salvinismo” degli annunci del governo greco e nel disinteresse planetario.
All’alba ricomincia la vita, sperando sempre che dopo il tramonto non sia accaduto nulla di irreparabile. Intorno al campo profughi di Moria si moltiplicano le tendopoli di fortuna, anche grazie ai “carpentieri” con i preziosissimi bancali salva-pioggia e le sovrastrutture in legno. La mole di rifiuti è impressionante, quanto le code davanti ai pochissimi bagni chimici o ai rubinetti d’acqua per il bucato. Bambini e ragazzini si aggirano insieme ai cani randagi e agli operai chiamati ad adeguare le cabine dell’elettricità (“saltata” per un paio di giorni). Le donne cercano nei “mercatini” un po’ di frutta, una nuova coperta, scarpe o qualche novità di giornata. Gli uomini si concentrano nei forni tandouri infilati nella terra per ottenere pane arabo, nella raccolta della legna fra gli ulivi a perdita d’occhio, nella ricerca di un baratto conveniente. Al massimo, si concedono il “negozio” del barbiere…
Tutti, a Moria, sono prigionieri. E in fila: cibo, visite mediche, bisogni fisiologici, ricarica dei cellulari consumano il tempo. Senza mai dimenticare la verifica della propria condizione di profugo: la coda davanti al compound dell’Easo (l’agenzia europea che gestisce le procedure dei migranti) non risolve nulla, ma serve solo a preservare il numero di pratica nella roulette impazzita del sistema.
Nell’ufficio del Lesvos Legal Center sono alle prese con la normativa greca che entra in vigore a gennaio. Escluderà la sindrome da stress post traumatico nel riconoscimento della vulnerabilità: significa, in concreto, essere vittime eppure deportabili in Turchia. Altre conseguenze della nuova legge potrebbero profilarsi. Dalla “militarizzazione” dei campi profughi alla persecuzione di chi solidarizza con i migranti.
A Lesbo sono dovunque, più male che bene. Camminano chilometri verso Mitilene (o tornano, sempre a piedi), perché i bus del trasporto pubblico sono “costosi” e affollati. Vengono curati e assistiti nelle prime 48 ore dopo lo sbarco a Skala Sikamineas, dove operano LightHouse Relief e Refugee Rescue. Sono in altri 1.500 a Kara Tepe nella struttura della municipalità, con l’ingresso presidiato. Ma anche in pieno centro città. A Mosaik Center, dove producono borse e altri oggetti con i salvagente della traversata. E nel ristorante Nan che integra il menù all’orientale con l’accoglienza nella scelta del personale.
Di sera - fra il traffico caotico nel dedalo di stradine e il porto con la vedetta della Guardia costiera - si ammicca al meteo (che può inasprire le condizioni dei migranti nel campo) oppure si lima l’organizzazione della festa multietnica. Nel buco nero di Lesbo è comunque accesa una luce, al di là delle luminarie natalizie.