La sfida della prescrizione
L'esercizio della giurisdizione, soprattutto in materia penale, è uno di quei campi in cui si misurano i valori fondamentali dello Stato di diritto.
Uno dei nodi che rendono più difficile la navigazione del governo in queste settimane è l’entrata in vigore della riforma della prescrizione nel processo penale. Non è uno di quegli argomenti che appassionano l’opinione pubblica, non solo per la sua oggettiva complessità – in barba al semplicismo internettiano che tutto vorrebbe ridurre a slogan – ma anche perché di fronte ai temi che riguardano l’amministrazione della giustizia, purtroppo, si finisce spesso per oscillare tra l’indifferenza e gli impulsi di tipo forcaiolo. “Tutti in galera!”: naturalmente finché la vicenda non ci tocca da vicino direttamente o indirettamente, perché allora tutto cambia. Invece l’esercizio della giurisdizione, soprattutto in materia penale, è uno di quei campi in cui si misurano i valori fondamentali dello Stato di diritto, una delle linee di cesura che distinguono una vera democrazia dai regimi autoritari o propriamente dittatoriali. È una materia da trattare con i guanti e su cui l’opinione pubblica dovrebbe vigilare con lucidità e consapevolezza.
Nel caso della prescrizione – vale a dire l’estinzione del reato se non si arriva a una sentenza irrevocabile entro un preciso termine fissato dalla legge – viene chiamato esplicitamente in causa l’art. 111 della Costituzione, che stabilisce il principio della “ragionevole durata” del processo. Ma è in gioco anche il fondamentale art. 27, secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Ebbene, dal primo gennaio scorso è diventata operativa una norma della “riforma Bonafede” (dal nome del ministro della Giustizia) che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Lo scopo dichiarato della norma è quello di evitare che troppi processi finiscano senza una sentenza definitiva, come dovrebbe essere nella fisiologia del sistema, ma – appunto – per prescrizione. Una finalità in sé condivisibile, che però viene perseguita prendendo il toro per la coda: siccome lo Stato non è in grado di assicurare la “ragionevole durata” dei processi, si tengono le persone nella condizione di imputati per un tempo potenzialmente indefinito. Una soluzione che per molti eminenti giuristi è a elevatissimo rischio di incostituzionalità. E lo è anche per molti alti magistrati che, in occasione della recente inaugurazione dell’anno giudiziario, hanno messo in luce anche un aspetto paradossale dell’intervento normativo. Il blocco introdotto dalla riforma, infatti, non riguarda le fasi del procedimento in cui i casi di prescrizione hanno la maggiore incidenza, cioè l’indagine e l’udienza preliminare.
Ma com’è nata questa norma contestata sia dagli avvocati, ovviamente, sia da alcuni dei più autorevoli magistrati? Essa è contenuta nel ddl anticorruzione approvato dalla maggioranza giallo-verde nel dicembre 2018. In quella circostanza la Lega votò a favore di un provvedimento voluto con tutte le sue forze dal M5S, ma ottenne che il blocco della prescrizione scattasse un anno dopo così da consentire il varo di un pacchetto di riforme per dare tempi certi ai processi. Questo non è accaduto, come purtroppo molti prevedevano già allora, ma intanto il blocco della prescrizione è entrato in vigore e bisogna correre ai ripari. In Parlamento ci sarebbe sulla carta un’amplissima maggioranza favorevole a correggere la norma: in pratica tutti tranne il M5S che però ne fa una questione di vita o di morte, in un momento già di per sé critico per questa formazione. È possibile salvare le ragioni della governabilità senza intaccare quelle, imprescindibili, del diritto? E per quale stretto sentiero? Per il Conte 2 è una sfida – e allo stesso tempo un’occasione – in cui dimostrare la propria consistenza politica.