L'esodo infinito degli eritrei. Nel limbo dei campi al confine: “Per noi non c’è pace”
REPORTAGE dal Tigray, zona di confine. Al primo ministro Abiy Ahmed Ali il premio Nobel per la pace, ma per chi vive sotto il regime di Afewerki la situazione non è cambiata. Si continua a scappare: in Etiopia il numero di rifugiati sfiora il milione. Da qui partito anche il primo corridoio dall’Africa di Caritas e Cei
SHIRE - La strada di terra arsa che si perde all’orizzonte è intervallata solo da qualche curva, alcune costruzioni di mattoni e una collina: a destra c’è Mereb il fiume che segna il confine, a sinistra Badamè, la zona contesa per oltre vent’anni. “Lì dopo quella curva c’è l’Eritrea: le persone passano da lì, attraversano la frontiera a piedi, ogni giorno. Camminano fino a Dabaguna, dove c’è il primo centro e lì vengono registrati. Ci sono quindi ingressi circa, si stimano fino a circa 300 passaggi al giorno”, dice Alganesh Feassaha, presidente della Fondazione Gandhi, che ci accompagna nel viaggio insieme agli operatori di Caritas Italiana. Un esodo continuo, che neanche i recenti accordi di pace hanno arrestato, anzi da quando si sono aperti i confini, a scappare è un numero maggiore di persone. Siamo nella zona del Tigray, a venti chilometri da Shire. Qui ci sono almeno 164 mila profughi, in maggioranza eritrei, nei quattro campi ufficiali e nel campo di smistamento dell’Unhcr. “Doctor Aganesh” come la chiamano qui, continua a rivolgere lo sguardo oltre la collina, al suo paese, in cui da oltre 27 anni non può rientrare. “Penso di essere un ospite non gradita, diciamo così. Ma mi manca tanto, non vedo l’ora di rientrare”, dice. Attivista, medico ayurvedico, nel Giardino dei Giusti a Tunisi un albero porta il suo nome per ricordare la sua incessante attività di aiuto verso i migranti, non solo al confine con l’Eritrea ma anche in Libia e nel Sinai. Nel campo di May Haini la sua ong si occupa di assicurare almeno un pasto al giorno ai bambini presenti. Il campo conta più di 20 mila persone, che vivono nelle tende, ma anche in casolari di mattoni e lamiere. Il tempo di permanenza è infinito, si può restare qui anche 10 anni.
Secondo l’ultimo rapporto di Unhcr, in Etiopia ci sono quasi un milione (905,831) di rifugiati: un numero altissimo, tanto da risultare il secondo paese africano dopo l’Uganda. Solo nella zona del Tigray ci sono circa 170 mila persone, in gran parte scappate dal regime di Isaias Afewerki. “I campi più grandi sono quello di Mai Aini e Aidi Arush - spiega Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas italiana -. Le persone vivono qui, ormai da anni, con grandi difficoltà anche rispetto alla popolazione locale, perché avere numeri così alti nei campi significa gravare sulla comunità locale. Bisogna trovare le vie per alleggerire questa accoglienza - aggiunge -. L’Etiopia non è un paese che potrà proseguire con questi sforzi perché i costi, sia economici che sociali, sono elevati”.
In una delle case di cemento incontro due ragazze appena arrivate, preparano il caffè. “Veniamo da Asmara, abbiamo passato il confine una settimana fa - dicono - per ora siamo qui nel campo, poi proviamo ad andare ad Addis Abeba”. Nella casa affianco si entra passando un piccolo cancello: nel cortile improvvisato, un filo tirato tiene su i panni stesi di bambini molto piccoli, uno zaino. Per terra, vicino alle mura ci sono alcuni sacchi, a cui una capra attinge per mangiare. “Sono eritrea, nel mio paese ero un’insegnante - racconta Farah -. Sono andata via dal paese per raggiungere mio marito, che è stato costretto a scappare, e ora è in Canada. Qui ci siamo io e i nostri tre bambini - aggiunge - non è facile, perché non è il nostro paese e le condizioni non sono ottime. Ma speriamo di ricongiungerci con lui al più presto”.
Davanti all’ingresso del campo, sotto il manifesto di Unhcr che recita “working together to prevent suicide”, decine di persone si ammassano in fila. Oltre a chi scappa da Asmara, c’è chi arriva dal Sudan e dalla Somalia. “La frontiera è lunga e pericolosa, anche mortale, ci sono dei fiumi da attraversare e per molti il viaggio è particolarmente difficile - aggiunge Forti -. Quando riescono ad arrivare, vengono smistati in questi campi attrezzati. Ma il tempo di permanenza è molto variabile: c’è chi rimane anche oltre 10 anni. Molti giovani sono nati qui e continuano a vivere in attesa di una risposta. Ma più i tempi si allungano più si affievoliscono le speranze di trovare un’alternativa. E questo spinge molti a pensare ad altre vie: in particolare la via del deserto, della Libia e del mare”.
In molti si affidano ai trafficanti, nelle zone di confine ci sono diversi passeur che aspettano i rifugiati per offrire un passaggio a peso d’oro. Le alternative legali e sicure sono poche: i progetti di reinsediamento verso altri paesi sono numericamente risibili, negli ultimi anni si sono ridotti in particolare i programmi di resettlement verso gli Stati Uniti, per una stretta voluta dall’amministrazione Trump. Sono stati incrementati invece i programmi privati come i corridoi umanitari, ma anche questi hanno numeri ancora bassi. In particolare, il corridoio da Addis Abeba verso l’Italia, organizzato da Caritas italiana, Fondazione Gandhi e Unhcr, da protocollo prevede l’arrivo nel nostro paese di 600 persone. Il protocollo precedente ne contava 500. “Sono numeri poco significativi se pensiamo che ogni campo ha al suo interno almeno 20 mila persone - aggiunge Forti -. Ma ovviamente importanti perché permettiamo a queste persone di arrivare con una via legale e sicura”. Oltre il limbo dei campi al confine, la situazione è complicata anche nei sobborghi delle grandi città.
A Jemo, quartiere di Addis Abeba, c’è una comunità numerosa di rifugiati cosiddetti out of camp, fuori accoglienza. Sono passati cioè dai campi ufficiali al confine per poi spostarsi in città, uscendo di fatto dall’accoglienza. Vivono in palazzi occupati e si mantengono facendo piccoli lavoretti: la legge non gli permette ancora di lavorare. Per loro - la situazione paradossalmente è peggiorata dopo la pace firmata tra Etiopia ed Eritrea: con l’apertura dei confini molti emissari del regime sono entrati nel paese, e ora chi è scappato teme di non essere al sicuro neanche qui.
“Molti attivisti, scappati da Asmara, hanno un problema di protezione anche in un paese di primo asilo come l’Etiopia - spiega Daniele Albanese, che per Caritas italiana segue il corridoio umanitario dal Corno d’Africa, occupandosi di tutta la parte logistica. Ogni partenza ha alle spalle una lavoro di mesi, mi racconta, mentre arriviamo nel residence di Addis Abeba, dove vivono le persone beneficiarie del progetto. “Abbiamo incontrato le persone nei campi al confine, partiamo dalla segnalazione delle Nazioni Unite che ci fornisce una lista di persone vulnerabili - aggiunge -. Tutti hanno dovuto scappare e lasciare il paese in maniera traumatica. Questo, per ora, è l’unico corridoio umanitario dall’Africa. La maggior parte dei beneficiari sono eritrei perché nel paese continua la diaspora e il movimento di persone, specialmente dopo la pace con l’Etiopia l’afflusso è diventato enorme perché si sono aperti i confini. Fuori e dentro i campi alla frontiera ci sono anche tanti trafficanti che chiedono cinque o seimila euro a persona per arrivare in Europa. La rotta più battuta è quella verso la Libia. Quello che tentiamo di fare noi è offrire una testimonianza virtuosa che vorremmo diventasse sistema”.
Il 10 dicembre scorso il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali ha ritirato il premio Nobel per la Pace 2019, che gli è stato conferito per l’accordo di pace raggiunto con l’Eritrea, dopo vent’anni di guerra tra i due paesi. Ma se in Etiopia i cambiamenti sembrano procedere sia dal punto di vista economico che sociale, in Eritrea non si respira un’aria nuova. “Sono scappato dopo la firma della pace tra Eritrea ed Etiopia - racconta Mehari Haile, che fa parte del gruppo partito il 29 novembre 2019-. In Eritrea il servizio militare continua a essere definitivo, io sono stato arruolato 5 anni poi non ce la facevo più, stavo impazzendo e ho lasciato. Quando si sono aperti i confini con l’Etiopia sono riuscito a scappare, lì ho lasciato mia madre. Ma ora non posso più tornare indietro. Avevo già pensato di lasciare il mio paese in modo legale, avevo ottenuto una borsa di studio a Trento e Milano ma non mi hanno mai rilasciato il passaporto. Non puoi andartene dall’Eritrea, puoi solo scappare”. E’ per questo - aggiunge - che molti provano la rotta più pericolosa, quella del mare. “Dopo la pace tra Etiopia ed Eritrea si sono aperti i confini, ma non è cambiato niente per noi - aggiunge - Sì, non c’è più la guerra, ed è una cosa positiva, ma le nostre vite sono rimaste uguali. C’è ancora un regime dittatoriale, non c’è libertà di parola e di pensiero. E’ come se fosse una pace finta. Ho dei parenti che hanno fatto la traversata via mare e mi hanno raccontato cose orribili, mi dicono che un viaggio terribile - aggiunge -. Io ho la fortuna di arrivare con un corridoio umanitario ma in tanti non hanno altra scelta”. In tutto saranno 600 i beneficiari del progetto dal Corno d’Africa in due anni.
Redattore Sociale ha seguito l’ultimo corridoio del 29 novembre scorso, raccontando le storie delle persone pronte a partire verso nel nostro paese, che ora sono accolte nelle diocesi di tutta Italia. “Nessuno ha la presunzione di risolvere i grandi problemi dell’immigrazione con i corridoi umanitari: il nostro obiettivo è mandare un messaggio chiaro, vogliamo cambiare la narrativa per cambiare anche le politiche - aggiunge Oliviero Forti -. Vogliamo spingere, cioè, le istituzioni e i governi a impegnarsi realmente a realizzare vie sicure e legali, perché le persone non debbano più tentare altre rotte, che mettono a rischio la vita di migliaia di persone come quella del Mediterraneo centrale”.
Eleonora Camilli