Il dolore “in mimetica”. Quello del 18 marzo è stato il primo dei cortei funebri fatto con mezzi militari
Lo sgomento di fronte a quelle lunghe file di bare, ordinatamente allineate e pietosamente accompagnate dai mezzi dell’esercito nel loro ultimo viaggio.
Le luci del giorno non hanno fatto ancora capolino all’orizzonte, quando nella notte del 18 marzo, in un silenzio irreale una colonna di mezzi militari giunti da lontano attraversa lentamente, in fila indiana, le strade di Bergamo. Solo il rumore dei motori, tenuto al minimo, per non svegliare la città, per risparmiarle l’ennesimo dolore. Qualcuno vede la scena, prende il cellulare, scatta una foto e la posta sui social.
Impotente di fronte ad un male tanto perfido quanto invisibile, Bergamo si trova costretta ad accettare anche il fatto che, in questi giorni, non ce la fa nemmeno a prendersi cura dei suoi tanti, troppi morti. È uno strazio nello strazio. Un dolore che lascia ammutoliti e che soffoca le lacrime in gola.
Quello del 18 marzo è stato il primo dei cortei funebri “in mimetica”. Il secondo è seguito la mattina di sabato 21. Nel pomeriggio di giovedì 26 il terzo. E sappiamo tutti che, purtroppo, non sarà l’ultimo.
È subdolo il covid-19. Invisibile e vigliacco, si insinua nelle pieghe del nostro quotidiano, pronto a sferrare l’attacco e a colpire soprattutto i più fragili. Mostra i muscoli, ma sa bene di non essere invincibile. Cerca di alimentare le nostre paure, così da disorientarci e costringerci ad abbassare la guardia. Arriva perfino a mostrarci il volto più straziante della morte. Quella vissuta in muta solitudine, lontano da un volto amato, da una carezza amica.
Di fronte a quelle lunghe file di bare, ordinatamente allineate e pietosamente accompagnate dai mezzi dell’esercito nel loro ultimo viaggio, viene da gridare al cielo, come ha fatto Gesù, “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Parole che, a pochi giorni dalla Settimana Santa, risuonano ancora più forti, mentre tutt’attorno il silenzio che ci circonda diventa sempre più assordante.
Ci prepariamo a vivere una Pasqua che non avremmo mai neanche lontanamente immaginato di dover un giorno vivere. E in questo momento siamo consapevoli che non abbiamo né il tempo né lo spazio per i se e per i ma. È un lusso che non ci possiamo permettere.
Arriveremo al mattino di Pasqua chiusi in casa, pieni di paura, con il cuore traboccante di lacrime, stanchi di aggirarci con sospetto per paura che questo male invisibile sbuchi fuori all’improvviso, pronto ad attaccarci alle spalle. Proprio come Maria Maddalena e l’altra Maria (Mt 28,1) che quel mattino si recarono con grande timore al sepolcro di Gesù. E si spaventarono nel trovarlo vuoto.
Quel mattino arriverà anche per noi. Questo periodo, di cui porteremo per sempre le cicatrici, finirà. Quel giorno, frastornati ed increduli, scopriremo che il nostro pianto a lungo strozzato in gola si trasformerà all’improvviso in lacrime di vera gioia. Quel giorno saranno i nostri occhi a parlare. E sarà bellissimo.