Guerra in Siria. Bressan (Lumsa): “Si combatte tra armi chimiche e scomposizione demografica”
Sale la tensione in Siria dove il 7 aprile un attacco chimico contro Duma, ultima roccaforte ribelle nella Ghouta orientale, ha provocato decine di morti, tra i quali molti bambini. Papa Francesco ha condannato l'attacco e chiesto pace per il martoriato Paese mediorientale.
Una prima risposta all'attacco è stata, all'alba di oggi, il raid aereo, condotto secondo i media siriani da Israele, contro una base militare governativa siriana. Gli Usa potrebbero rispondere con altri raid e con nuove sanzioni contro la Russia, alleato di Damasco. Per fare il punto sul conflitto siriano il Sir ha intervistato Matteo Bressan, Emerging Challenges Analyst per il Nato Defense College Foundation e docente di Relazioni internazionali presso la Lumsa di Roma
“Giungono dalla Siria notizie terribili, di bombardamenti con decine di vittime di cui molte sono donne e bambini, notizie di tante persone colpite da effetti di sostanze chimiche contenute nelle bombe. Niente può giustificare l’uso di tali strumenti di sterminio contro persone e popolazioni inermi”. Lo ha detto Papa Francesco dopo il Regina Coeli, domenica 8 aprile, lanciando un ennesimo accorato appello per la Siria dove la guerra è entrata nel suo ottavo anno. Parole che giungevano mentre in tutto il mondo correvano le immagini del presunto attacco chimico a Duma, contro l’ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad nella Ghouta orientale. Gli Usa hanno accusato il regime siriano ma Damasco e il suo alleato russo hanno negato ogni coinvolgimento. L’Opac, l’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, ha annunciato un’inchiesta sull’attacco.
Intanto all’alba di lunedì, 9 aprile, una base militare governativa siriana della provincia di Homs, è stata colpita da un raid aereo che ha provocato almeno 14 morti. A colpire secondo i media di Stato siriani sarebbero stati caccia di Israele. Con Matteo Bressan, Emerging Challenges Analyst per il Nato Defense College Foundation e docente di Relazioni internazionali presso la Lumsa di Roma, abbiamo fatto il punto sulla situazione in Siria.
Le parole del Papa e la sua condanna delle armi chimiche hanno riportato la Siria sulle prime pagine dei giornali…
È almeno dal 2012 che in Siria assistiamo all’uso delle armi chimiche intorno al quale esiste una vera e propria guerra mediatica con le difficoltà delle fonti a verificare le notizie, i video, le inchieste e le controinchieste. Questo si verifica a cominciare dai primi attacchi del 2012 che anticiparono quello più grande dell’agosto del 2013 sempre nel sobborgo del Ghouta. Nonostante l’impegno sancito dall’Onu, grazie a Russia e Usa, di distruggere l’arsenale chimico di Assad sappiamo, grazie a numerose e autorevoli inchieste, che più volte il regime avrebbe impiegato le barrell bombs (bombe barili) al cloro, così come è emerso il rischio che queste armi potessero essere prese dai ribelli, gruppi islamisti e jihadisti e usate contro altri attori del campo di battaglia siriano: è accaduto contro i curdi nel 2014 e 2015.
L’uso delle armi chimiche ci indigna e le immagini che si vedono sui social sono raccapriccianti. Ma dobbiamo ricordare che in Siria si combatte e si muore da 8 anni.
Credo che la stessa giusta enfasi che viene data a queste vittime vada anche a tutte le altre di questo conflitto che sono arrivate a quasi 600mila. Credo che sia giusto parlare di questa guerra non solo quando a colpire sono le armi chimiche.
L’attacco nella Ghouta orientale, già riconquistata dal governo per il 95%, è avvenuto dopo un’intesa tra il gruppo ribelle Jaich al-Islam e la Russia alleata di Assad che prevedeva l’evacuazione dei combattenti e loro familiari e di molti civili, verso la provincia di Aleppo ancora dominata dagli insorti…
L’evacuazione di combattenti e delle loro famiglie era accaduta anche ad Aleppo. La scomposizione demografica della Siria è un altro elemento che emerge da questo conflitto e di cui si parla poco. Si tratta di una tattica che potrebbe essere usata anche dalla Turchia per ridefinire i rapporti di forza con i propri vicini di confine. Nel recente vertice del 4 aprile, ad Ankara, tra Russia, Iran e Turchia, il premier turco Erdogan ha detto che 160mila siriani sono già rientrati nel cantone di Afrin. Una presenza che riequilibra quella curda che già vive in quella zona.
In questa fase del conflitto particolarmente attivi sembrano essere Arabia Saudita e Israele. Che ruolo stanno giocando questi due Paesi nel puzzle siriano?
A fine marzo il principe ereditario saudita Bin Salman è stato alla Casa Bianca, da Trump. Il primo elemento che emerge dall’incontro è l’inserimento da parte saudita dell’Iran in quel triangolo del male composto dalla Fratellanza musulmana e dall’Isis. Da qui la rinuncia dell’Arabia Saudita alla narrativa del Califfo Al Baghdadi, vale a dire combattere per diffondere l’Islam, e riconoscere invece a ogni essere umano la possibilità di scegliere la propria fede. Altro punto è il riconoscimento al popolo ebraico del diritto ad avere uno Stato-Nazione.
Oggi il nemico comune di Arabia Saudita e Israele è l’Iran.
Il timore è che Assad e la Siria diventino dei fantocci nelle mani dell’Iran. Quest’ultimo, da par suo, vede con grande preoccupazione l’alleanza ‘israelo-saudita’ così come la messa in discussione da parte di Trump dell’accordo sul nucleare.
Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha ribadito che “non esiste una soluzione militare al conflitto” e quindi bisogna continuare i negoziati. Tuttavia la comunità internazionale, con l’Ue grande assente, non sembra in grado di gestire il conflitto le cui sorti sembrano appese ad eventuali accordi tra russi, turchi e iraniani…
Se si parla di Onu, di comunità internazionale, di Ue, bisogna ricordare anche che dal 2012 esiste una spaccatura all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, tra Usa, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina, fatta di veti incrociati su qualsiasi iniziativa in territorio siriano. Che l’Europa molto spesso agisca in politica estera in ordine sparso è cosa nota. Ma la frattura all’interno del Consiglio di Sicurezza è sintomatica di questo conflitto. Siamo in un momento storico in cui l’unica potenza rimasta è rappresentata dagli Usa ma si registra l’avanzata, in alcune aree, anche di altri attori come Russia, Cina, India, che non condividono le regole del nuovo ordine internazionale miseramente fallito in Iraq nel 2014. Non si tratta di difendere l’Assad di turno ma di un modello che si traduce nella formula ‘abbiamo visto quello che avete prodotto in Iraq e in Libia dove, una volta eliminato il dittatore di turno non avevate un piano di soluzione politica del conflitto, e quindi imponiamo e poniamo il veto per manifestare la nostra contrarietà a questo tipo di interventi’. Con un Consiglio di sicurezza dell’Onu unito molto probabilmente anche l’Ue, a cominciare da Francia e Gran Bretagna che hanno una presenza storica in Medio Oriente, essendo state potenze mandatarie rispettivamente di Siria e Iraq, avrebbe avuto un maggiore attivismo politico. Oggi l’Ue è vittima, anche della spaccatura all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Quanto la vittoria militare di Assad potrà favorire un’auspicata soluzione diplomatica e negoziata?
La vittoria militare di Assad è un dato abbastanza verificabile guardando le carte della Siria di oggi messe a confronto con quelle del 2015. Detto ciò non si può dire che la Siria sia un Paese pacificato. Ci sono ancora zone in conflitto: la Turchia è presente militarmente in territorio siriano, così come i russi alleati di Assad, le milizie di Hezbollah libanesi e i pasdaran iraniani. Nel Paese mediorientale esiste una diversa lettura del conflitto, di chi è legittimato a stare in Siria e chi non lo è, di chi è terrorista e di chi non lo è, e via dicendo.
Vedo difficile una soluzione anche perché il recente vertice a tre Russia, Turchia e Iran è solo una parte del mosaico siriano.
A quell’incontro mancano attori fondamentali come Arabia Saudita e Israele. Per Israele il grande problema non è la permanenza al potere di Assad ma la presenza iraniana. Oggi il punto di partenza di un negoziato non è più l’alternativa ad Assad ma la presenza iraniana anche perché va detto che le due agende, di Iran e Assad da un lato, e della Russia dall’altro, non combaciano del tutto. In caso di guerra aperta tra Iran e Israele la Russia, come fatto trapelare da Mosca, starà con quest’ultimo.
Dopo tanti anni di conflitto, cosa resta della Siria?
Della Siria del 2011 resta ben poco. Come dicevo poco fa, ci sono zone del Paese ancora scosse dalla presenza di eserciti stranieri e di attori non statuali. I trasferimenti dei civili, evacuati spesso con la forza, ridisegnano la Siria. Il Paese sta cambiando con interi quartieri e città modificati demograficamente e anche confessionalmente. Sul piano internazionale, senza un tavolo in cui non siano presenti anche gli attori che più si sono opposti ad Assad, Arabia saudita in testa, questo conflitto non potrà terminare. Aggiungiamo anche che ci sono parti di territorio in cui agiscono milizie che fanno capo ad Al Qaeda. Report del Dipartimento di Stato Usa riconoscono come Al Qaeda sia il gruppo che si è maggiormente rafforzato in questi anni, e non solo in Siria. Rimasto nell’ombra rispetto all’Isis, ha potuto riorganizzare le sue fila e oggi nella sola Siria può vantare 20mila combattenti. Se gli attori esterni alla Siria faranno un passo indietro l’insorgenza armata potrà affievolirsi. Certamente rimarranno spaccature tra parti della società siriana e Assad ma ci saranno anche fasce della popolazione che dopo 8 anni di guerra preferiranno, ad assedi e bombardamenti, un ritorno alla normalità, accettando lo stesso regime di Assad, nonostante i suoi limiti democratici.