Grégoire Ahongbohon, il “Basaglia d’Africa” che spezza le catene della malattia mentale
Grégoire Ahongbohon ha dedicato tutta la sua vita alle persone affette da gravi disturbi psichiatrici. Ha fondato l'Association Saint Camille de Lellis, che ha centri in Costa d’Avorio, Benin e Togo. Cura i malati e sensibilizza contro la terribile prassi di incatenare i malati mentali ai tronchi d'albero e sottoporli a orribili torture.
In Italia lo chiamano “il Basaglia d’Africa”, dal nome del famoso psichiatra italiano che fece uscire le persone dai manicomi. Grégoire Ahongbohon, 65 anni, filantropo originario del Benin, ha dedicato tutta la sua vita agli ultimi degli ultimi in Africa: le persone affette da gravi disturbi psichiatrici. Grégoire ha fondato centri in Costa d’Avorio, Togo e Benin. Il suo segno distintivo è una lunga catena che porta sempre con sé, dovunque lo invitino a parlare. Nelle scuole, nelle parrocchie, presso le istituzioni europee ed internazionali. È la catena della malattia mentale in Africa e purtroppo non è solo metaforica. In alcune zone i familiari incatenano ai tronchi d’alberi le persone che soffrono di disturbi gravi, su consiglio dei responsabili di alcune sette che promettono di scacciare il demonio dai loro corpi. Li lasciano senza cibo né acqua, li picchiano e bastonano, spesso sopraggiunge la morte. È stata questa drammatica scoperta, oltre alla sua personale esperienza, a spingerlo ad occuparsi di loro e fondare una organizzazione caritativa.
Il giovane incatenato. “La prima volta che mi hanno portato in un villaggio è stato uno choc”, ha raccontato Grégoire parlando ad una platea di missionari, religiose e laici durante il Forum missionario nazionale organizzato a Sacrofano (Roma) dall’Ufficio Cei per la cooperazione missionaria tra le Chiese e la Fondazione Missio: “In una casa c’era un giovane incatenato con le mani e i piedi ad un tronco, con i vermi sul corpo, come Gesù sulla croce. Lo abbiamo curato, medicato e portato al nostro centro, ma era talmente malmesso che è morto poco dopo”.
“Ha fatto in tempo a chiedermi: perché ho meritato di essere trattato così?”
“Ma la colpa non è della famiglia – ha precisato -. Lo fanno con grande sofferenza. Il problema è che non esistono ospedali specializzati. Le sette se ne approfittano per denaro, promettendo guarigioni miracolose”.
Dalla crisi personale all’impegno. Grégoire, classe 1953, ha sperimentato sulla sua pelle la dura vita del migrante, l’emarginazione e la sofferenza estrema. Nato a Ketoukpe, un villaggio del Benin al confine con la Nigeria, a 19 anni parte per la Costa d’Avorio, dove trova lavoro come gommista a Bouaké. “A 27 anni ho perso tutto ed ero sul punto di suicidarmi”, ha confidato: “Tante persone appartenenti alle sette mi invitavano alle loro celebrazioni. Ma io sono battezzato cattolico e avrei preferito morire piuttosto che cambiare fede. Nella disgrazia ho avuto la fortuna di incontrare un missionario. Mi ha portato con lui in pellegrinaggio in Terra Santa, è stata una esperienza molto forte”. Tornato in Costa d’Avorio entra in un gruppo di preghiera. Con la moglie inizia ad andare a trovare le persone malate e gli anziani soli negli ospedali. Nel 1990 avviene il primo incontro con i malati di mente, abbandonati da tutti. “Ho visto un uomo nudo che cercava nella spazzatura e ho avuto paura. Ho sentito che Gesù soffre in questi malati e mi sono detto: se rappresenta Gesù perché avere paura?”.
Cure speciali. Da quel giorno la coppia va per le strade a distribuire acqua e cibo alle persone con disturbi mentali. Chiede e ottiene uno spazio nell’ospedale universitario di Chu, a Bouaké. Con l’aiuto di alcuni medici ospita i primi malati, “trattandoli come persone”. I risultati delle cure – un mix di farmaci, terapia psichiatrica e riabilitazione sociale – sono talmente sorprendenti che quando il locale ministro della sanità nel 1993 va in visita all’ospedale chiede al direttore di destinare un terreno all’opera di Grégoire. Così nasce il primo centro, che oggi fa parte dell’Association Saint Camille de Lellis : 4 centri in Costa d’Avorio, 4 in Benin (più 1 in costruzione), 3 in Togo.
Ci sono pazienti affetti da schizofrenia, depressione, bipolarismo. Nessuno viene mai sedato.
Ciò che rende speciali le cure è anche la presenza di Gregoire, che riesce a comunicare a livello sottile con i malati, abbracciandoli e sussurrando parole rassicuranti. Una volta guariti, gli ex pazienti diventano a loro volta dirigenti, infermieri o volontari negli stessi centri.
“È più facile vivere con i malati di mente che con quelli che si credono sani”.
In questi anni Ahongbohon è andato a parlare al Parlamento europeo, alla Clinton Global initiative che sostiene progetti umanitari. Va nelle scuole, nelle parrocchie, viene invitato ai convegni. Nel 2016 si parla dei malati incatenati e della sua opera nel film documentario “Réjétes” per la regia di Antonio Guadalupi. Ogni pulpito è buono per lanciare il suo messaggio, sempre con la catena in mano: “Quando racconto queste storie tutti piangono. Appena usciti dalla sala dimenticano tutto. Quale crimine hanno commesso queste persone? Dobbiamo aiutarli”.