8 marzo. Donne e lavoro: Italia ultima in Ue per tasso di attività femminile
Negli ultimi decenni le donne italiane hanno fatto passi da gigante nel mondo del lavoro, permangono però problemi difficili da scalfire e riconducibili in larga parte alle difficoltà di conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di cura della casa e della famiglia. L'analisi di Anmil
ROMA - Negli ultimi decenni le donne italiane hanno fatto passi da gigante nel mondo del lavoro. Già a partire dal secondo dopoguerra l’occupazione femminile è cresciuta a ritmi sempre più intensi per effetto della progressiva terziarizzazione del lavoro a scapito delle attività tradizionali dell’industria e dell’agricoltura. Dal 1975 ad oggi il numero delle lavoratrici è quasi raddoppiato (da 5,6 a 9,9 milioni di unità) e la quota di donne sul totale è salita dal 28,6% al 42,3%. Tuttavia permangono ancora oggi problemi di fondo difficili da scalfire e riconducibili in larga parte alle difficoltà di conciliazione dei tempi di lavoro con quelli di cura della casa e della famiglia. Il risultato è che le donne italiane presentano un gap occupazionale eclatante sia all’interno rispetto agli uomini che all’esterno rispetto alle donne del resto d’Europa. Lo rivela uno studio di Anmil reso noto in occasione della Giornata internazionale della donna
Secondo un report del Censi, elaborato su dati Istat e Eurostat 2018, in Italia il tasso di attività femminile, pari al 56,2 per cento, è all'ultimo posto in Europa; le donne italiane sono molto lontane anche dal tasso di attività maschile italiano che è pari al 75,1 per cento. Tra le giovani di età 15-24 anni il tasso di disoccupazione è del 34,8 per cento: anche in questo caso è abissale la distanza con l'Europa, dove l’analogo tasso medio è pari al 14,5 per cento. In Germania scende addirittura al 5,1%, nel Regno Unito al 10,3%, in Francia al 20%; anche in questo caso l’Italia si piazza in fondo alla classifica, seguita solo dalla Grecia (43,9%). E, rispetto al 2018, la situazione ad oggi non è certamente migliorata. Secondo la rilevazione Istat relativa ai primi tre trimestri 2019, le donne che lavorano in part time sono il 32,8% contro l'8,7% degli uomini. Ma l’aspetto più preoccupante – sottolinea Istat – è che “il part time non è cresciuto come strumento di conciliazione dei tempi di vita, ma nella sua componente involontaria" che è salita al 60% del totale, dal 34,9% dello stesso periodo del 2007.
Il divario uomo/donna c’è anche sul fronte infortunistico
Innanzitutto, il numero delle lavoratrici che si infortunano è nettamente inferiore a quello dei colleghi maschi, a tutti i livelli di gravità. Nel corso dell’ultimo quinquennio l’andamento infortunistico, sia in complesso che per entrambi i sessi, si è mantenuto sostanzialmente stazionario: gli infortuni maschili si attestano intorno alle 410.000 unità, quelli femminili a 230.000, vale a dire poco più della metà. Quanto detto si riferisce ai valori assoluti, ma anche in termini relativi il gap risulta notevole: il tasso di incidenza infortunistica (numero di infortuni per 1.000 occupati) è attualmente pari a 30,5% per gli uomini e a 23,2% per le donne. Il divario appare ancora più evidente nel caso degli infortuni lavorativi con esiti mortali dove il numero di quelli femminili, in media circa 115 decessi l’anno nell’ultimo quinquennio, risulta pari a meno di un decimo di quelli maschili la cui media annua si attesta intorno ai 1.200 casi (il dato dell’anno 2019 non è stato preso in considerazione in quanto del tutto provvisorio). Situazione analoga si riscontra per le malattie professionali, dove delle circa 60.000 che vengono denunciate annualmente solo il 27% (16.000 circa) riguarda la componente femminile.
La differenza tra i due sessi è legata alla differente rischiosità dei lavori svolti
Le donne sono occupate principalmente nei settori dei servizi che hanno bassi livelli di frequenza infortunistica; la presenza degli uomini è invece assolutamente preponderante in agricoltura, nell’industria e in particolare in quei settori come metallurgia, estrazione minerali, costruzioni, trasporti, che fanno registrare i tassi di pericolosità più elevati e nei quali la presenza femminile è praticamente marginale e circoscritta a ruoli quasi esclusivamente impiegatizi – amministrativi. La netta differenza di genere che si riscontra nell’incidenza infortunistica, a tutti i livelli di gravità, si riflette poi necessariamente sulla quantità e qualità degli indennizzi erogati dall’Inail. I lavoratori maschi, infatti, sono nettamente prevalenti nella concessione di indennità giornaliere per inabilità temporanea e di rendite per inabilità permanente; mentre le donne, a causa proprio della maggiore mortalità degli uomini, sono quelle che percepiscono la stragrande maggioranza delle rendite a superstiti. Alla data del 31.12.2018, infatti, risultano in vigore circa 600.000 rendite di inabilità permanente di cui l’85% a favore di uomini (circa 515.000) e il 15% (85.000) a favore di donne. Delle 105.000 rendite a superstiti in vigore, invece, circa 92.000 sono a favore di coniugi: di queste, si stima che oltre 85.000 (oltre il 92%) sono assegnate a donne e 7.000 a uomini (8%).
Focus sulle vedove
Allo stato attuale ci sono circa 85.000 vedove di lavoratori deceduti per cause lavorative, di cui 47.000 (55%) a seguito di infortunio e 38.000 (45%) per malattia professionale. L’età media è superiore a 75 anni; la rendita media annua è pari a circa 12.000 euro. “Al di là delle tragiche conseguenze sul piano umano, familiare e psicologico, che necessariamente si accompagnano ad un evento traumatico, come può essere la morte di un marito, c’è da considerare anche gli aspetti economici di una moglie, di una famiglia che ha perduto quella che è la principale e spesso unica fonte di sostentamento - sottolinea Anmil -. Su questo fronte alcune cose sono migliorate rispetto ad una situazione che fino a pochi anni fa era assolutamente inadeguata, quasi irrispettosa nei confronti di chi ha perduto il proprio compagno nell’adempimento del proprio dovere”. Per molti decenni, infatti, e fino a tutto il 2013, la rendita vedovile veniva calcolata sulla base delle disposizioni contenute nel Testo Unico del 1965, pari al 50% della retribuzione percepita dal lavoratore nei dodici mesi precedenti il decesso, nei limiti di un minimale e massimale di legge che, per l’anno 2013, erano pari rispettivamente a 15.500 euro circa e a 28.800 euro. L’importo della rendita assegnata alla vedova variava quindi da un minimo di 645 euro a un massimo di 1.200 euro mensili, un rapporto quasi 1 a 2; questo determinava una forte disparità tra chi al momento del decesso percepiva un reddito basso (in genere giovani lavoratori all’inizio della carriera) ed uno elevato, creando così una assurda quanto ingiustificabile discriminazione tra “vedove di serie A” e “vedove di serie B” che, poi, di fatto si risolveva nel dualismo “vedove anziane – vedove giovani”. Dal 1° gennaio 2014 la L. 147/2013 (Legge di stabilità 2014) è stato sanato questo “gap reddituale”: tutte le rendite ai superstiti vengono calcolate sulla base del massimale di legge. Attualmente dunque la rendita percepita da ogni vedova, qualunque sia stato il salario del coniuge deceduto, ammonta a circa 1.280 euro mensili; la rendita sale a circa 1.800 euro mensili nel caso di vedova con 1 orfano, a 2.300 con 2 orfani e a 2.560 con 3 o più orfani. Più recentemente, inoltre, la L. 145/2018 (Legge di stabilità 2019) ha fissato in 10.000 euro l’Assegno una tantum che sostituisce il vecchio Assegno funerario, pari a poco più di 2.000 euro, che veniva erogato per far fronte alle prime spese derivanti dal tragico evento. “Piccoli ma significativi riconoscimenti che consentono, quantomeno, di condurre una vita un po’ più dignitosa a quelle donne e a quelle famiglie che hanno conosciuto la tragedia di non vedere il proprio marito rientrare a casa dal posto di lavoro” conclude Anmil.