Quaresima di fraternità. La Pasqua della "piccola" Etiopia: la missione padovana nel tempo dell'attesa
Gesù risorge anche per i cento cristiani di Robe, che da tre mesi hanno accolto i missionari fidei donum dopo la partenza del vescovo emerito Antonio. Tra studio e conoscenza Elisabetta, don Nicola e don Stefano dividono le loro settimane di preparazione tra Kofale e Kokossa: "La Pasqua è un evento dello Spirito: noi seguiamo la voce dello Spirito e ne facciamo esperienza con queste comunità. Cristo parla anche in questi modi"
C’è una data per l’inizio della missione fidei donum della diocesi di Padova in Etiopia: è infatti l’11 gennaio di quest’anno, il giorno in cui la laica Elisabetta Corà e i preti don Stefano Ferraretto e don Nicola De Guio sono entrati nella prefettura apostolica di Robe. Poco meno di tre mesi. In Etiopia, però, il tempo scorre diversamente. Non solo l’anno è diviso in tredici mesi (dodici da trenta e uno da cinque), comincia a metà settembre e le ore del giorno e della notte sono contate in modo differente, ma cambia anche il modo di considerare il trascorrere di ore e settimane per chi arriva dall’Occidente così angosciato da agende da riempire e cose da fare. In Etiopia, per ora, i missionari padovani studiano, si preparano, cominciano a conoscere le persone e attendono di entrare in sintonia.
«Per ora la nostra priorità assoluta è lo studio – racconta in una chiamata Internet attraverso Whatsapp don Nicola De Guio – Stiamo imparando a Kofale la lingua oromo, parlata da 40 milioni di etiopi e soprattutto dalle popolazioni della prefettura di Kobe». Lo studio è costante: un paio di ore al mattino e un paio ogni pomeriggio. «Siamo accompagnati da alcuni insegnanti locali. Ci vorrà qualche altro mese. Non c’è solo la lingua da imparare, del resto l’oromo è una lingua relativamente semplice, ma c'è un’intera cultura, un ambiente da conoscere. Abbiamo scelto per questo di darci tutto il tempo necessario: tra qualche mese frequenteremo ad Addis Abeba un corso di lingua e cultura in un’università luterana, ritenuta da tutti i missionari un punto di riferimento fondamentale per lo studio».
Nel fine settimana i ritmi cambiano. Da Kofale i fidei donum si spostano a Kokossa, raggiungibile dopo un viaggio di 60 chilometri che richiede due ore su strada sterrata per andare e due ore per tornare. Qui i missionari padovani continuano il lavoro iniziato tre anni fa dal vescovo emerito Antonio Mattiazzo, che ha appena terminato la sua presenza. Il sabato mattina è dedicato alla catechesi per un gruppo di giovani, alcuni dei quali si stanno preparando a entrare nella Chiesa cattolica, mentre il pomeriggio del sabato si svolge un incontro con i bambini, grazie alla collaborazione di alcuni giovani della parrocchia. La domenica è il tempo della celebrazione eucaristica.
Anche qui, piccoli passi: si riconosce che c’è ancora tanto per cui lavorare. «Non abbiamo ancora la libertà linguistica per operare dal punto di vista pastorale – ammette don Nicola – ma d'altronde ci inseriamo in una pastorale che è appena iniziata. Facciamo gruppo con i missionari già presenti, ma sappiamo bene che ci sarebbe tanto da fare e che le forze sono poche». Anche qui: da una parte la voglia di fare, dall’altra l’importanza di imparare ad aspettare, quando serve. «Il vescovo Antonio ha fatto moltissimo, offrendo la testimonianza di chi ha dato la sua vita per il Vangelo e cogliendo nelle persone il desiderio di conoscere Gesù. Eppure anche lui ha capito quanto fosse importante dare risposta alle necessità di una comunità, in primis l’attenzione verso i poveri e progetti per la promozione umana. Non possiamo gestire purtroppo tutte le povertà che abbiamo, ma possiamo accompagnarle: non daremo mai la risposta giusta soltanto offrendo soldi, bisogna lavorare con la comunità per gestire le dinamiche, perché i poveri siano al centro delle preoccupazioni e si trovino le soluzioni possibili proprio tra la gente. Non ci sostituiremo a loro, ma come Chiesa e come missionari possiamo offrire questa nostra visione cristiana».
A Kokossa non solo gli anni e le ore trascorrono in modo diverso. Anche le festività seguono un calendario differente. La Quaresima è iniziata non il 6 ma il 13 marzo, pertanto anche la Pasqua non cadrà il 21 aprile ma il 28. «Vivere questo tempo di attesa assieme a questa piccola comunità – spiega don Nicola – ci fa capire il senso più profondo e vero di cosa significa preparare il nostro cuore ad accogliere il mistero pasquale».
Il mistero è lo stesso, cambia la forma: «Siamo abituati al nostro modo di celebrare, ma qui c’è uno stile diverso, molto più semplice. È una comunità piccola, composta da nemmeno cento persone, ma anche qui è Pasqua. Cercheremo di capire lo stile di celebrazione negli anni precedenti: i segni sono importanti, ancora più importanti perché non vengono dati per scontati». E riconosce: «Siamo persone nuove, arrivate da poco. La Pasqua non dipende da noi, è un evento dello Spirito: noi seguiamo la voce dello Spirito e ne facciamo esperienza assieme a queste comunità. Cristo parla anche in questi modi». Un dialogo appena iniziato, che conosce la grammatica dei tempi lunghi: «Corriamo sempre il rischio di passare per quelli che pretendono di sapere tutto, ma il tempo della conoscenza non va bruciato, è anzi fondamentale per imparare davvero. Ed è quello che abbiamo intenzione di fare».
Una Chiesa voluta sette anni fa da Benedetto XVI
La prefettura di Kobe è nata l’11 febbraio 2012 per volontà di papa Benedetto XVI: a guidarla c’è il cappuccino padre Angelo Antolini. Si estende su un territorio di oltre 100 mila chilometri quadrati, un terzo dell’Italia, per una popolazione di tre milioni e 300 mila abitanti. I cattolici sono solo lo 0,03 per cento della popolazione, al 97 per cento islamica. Nelle città ci sono alcune presenze ortodosse, retaggio dell’impero Amara.