Essere scuole di pace

Scuola e famiglia sono chiamate a trasmettere ai ragazzi quelle competenze di cittadinanza indispensabili per promuovere società più giuste e solidali

Essere scuole di pace

La guerra è entrata con prepotenza dentro alle nostre case come nella scuola, nei luoghi di lavoro e di ritrovo: in verità, non ci ha mai abbandonato perché, nonostante le tante dichiarazioni di principio contro gli orrori che i due conflitti mondiali del 20° secolo hanno prodotto, in tante parti del mondo si è continuato a combattere quella che il papa ha più volte definito una terza guerra mondiale a pezzi. Stimolato da alcuni insegnanti di religione (ma non solo), mi sono chiesto se sia giusto parlare della guerra che si sta consumando alle porte di casa nostra ai nostri studenti
e se sì, come farlo, a seconda dell’età e del contesto. Nel tentare una risposta sensata, mi è stato di grande aiuto un articolo comparso su Redattore sociale il 24 febbraio – giorno successivo all’inizio delle azioni militari russe contro l’Ucraina – che riportava un’intervista a Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, già ospite a uno dei nostri convegni di inizio anno scolastico. Il primo fattore da considerare è proprio l’età. Novara mette in guardia dal trattare i bambini come degli adulti, scaricando su di essi le nostre paure e insicurezze: «A me sembra che, in generale, abbiamo perso, come società adulta, la cognizione di
quale sia la percezione della vita e della realtà di un bambino. Tendiamo troppo e troppo male a pensare che i bambini siano come gli adulti, ma ovviamente non è così: dovremmo avere molto più rispetto […]. La guerra è un fenomeno molto lontano sul piano cognitivo dal mondo dei bambini. In linea di massima, direi che almeno fino a 7-8 anni sia meglio proteggere. Dai 9-10 anni si può iniziare a parlarne, tenendo lontane però le immagini di distruzione e di morte. Non abbiamo nessun vantaggio nel creare il panico nei nostri bambini […]. Quando un bambino pensa di essere in pericolo, dal punto di vista emotivo si attivano corti circuiti non indifferenti, che possono impedire di vivere normalmente: entra in uno stato di contrazione emotiva, che produce anche uno stato di contrazione psicologica e cognitiva. Potrebbe iniziare a dormire male e avere attacchi di aggressività».

Aumentando l’età, va crescendo anche il senso di consapevolezza del ragazzo e, progressivamente, è doveroso informarlo ed educarlo a informarsi: se non si assumono questa responsabilità la famiglia e la scuola, comunque il ragazzo raccoglierà informazioni attraverso i social, potendo anche formarsi una lettura distorta di cosa significhi
guerra, affidandosi all’influencer di turno o confondendo la realtà con la virtualità del videogioco. La mia generazione cresciuta negli anni 80/90, quando “giocava alla guerra” pensava alle battaglie con i soldatini o inscenate con spade di cartone artigianalmente costruite: ma le generazioni immediatamente successive fino al grado estremo di quelle odierne sono state buttate in pasto ai videogiochi che hanno reso la guerra un gioco virtuale ma serio e che “ti prende”, attribuendoti un ruolo che non è più travestimento e finzione, ma può facilmente creare in te uno sdoppiamento di personalità. Così nella visione dei telegiornali e dei vari programmi televisivi: a ogni ora del giorno e della notte le immagini di distruzione e di morte sono diventate di casa, tanto che ci siamo assuefatti ad assistervi e non ci sconvolge più nulla, potendo tranquillamente continuare a mangiare a casa nostra, mentre un’intera città viene
rasa al suolo. Sostiene al proposito Novara: «Genitori e insegnanti hanno la responsabilità di non lasciarsi loro stessi travolgere, di non diventare vittime a loro volta di quello che è uno dei primi scopi della guerra: creare paura e una sensazione di impotenza». E, aggiungo io, riprendendo ancora il papa: è necessario vaccinarsi contro la logica dell’indifferenza e la cultura della morte. Da un lato concordo con Novara quando sostiene che «deve essere assolutamente evitato di mettere in relazione la guerra con i litigi tra bambini: “È come quando tu litighi con i tuoi compagni” è una frase sbagliata, è terrorismo educativo. La guerra è violenza, distruzione totale, non c’entra niente coi litigi dei bambini, coi conflitti tra ragazzi. Anzi, come io insegno da sempre, più bambini e ragazzi imparano a litigare bene, più avremo persone contro la guerra. È imparando a gestire i conflitti, che si riduce la violenza». Dall’altro lato ritengo che invece con i preadolescenti e gli adolescenti vada ricordato che ogni atto di violenza, verbale
o fisica che sia, è preludio alla guerra; che ogni azione di vendetta o di sopraffazione sull’altro è, in piccolo, ciò che in grande compiono coloro che, in nome dell’affermazione del proprio potere personale o nazionale che sia, annientano l’altro. I fenomeni delle baby-gang, del bullismo e di tante varie forme di violenza e discriminazione sempre più diffuse non saranno sic et simpliciter assimilabili alla guerra, ma portano in sé gli stessi virus mortiferi che la causano e ne possono diventare l’anticamera. La gestione dei conflitti, la tensione al superamento delle divisioni e di ogni forma di violenza non sono solo una questione psicologica, sono anche una questione etica che chiede educazione ai valori e allenamento della volontà.

Famiglia e scuola, a qualunque età, a questo sono chiamate: non tanto a parlare di questa o quella guerra, in modo estemporaneo e circoscritto, ma essere permanenti scuole di pace. E allora ben venga la proposta a tutti gli insegnanti di «far dipingere dai loro alunni l’articolo 11 della Costituzione, così che ogni scuola diventi un monumento parlante di questa scelta di pace»; ben vengano tutte le encomiabili iniziative legate ai vari giorni della memoria; ma facciamo in modo che l’azione educativa di genitori e insegnanti sia capace di trasmettere ai ragazzi quelle competenze di cittadinanza indispensabili per promuovere società più giuste e solidali, attraverso esperienze concrete di riconciliazione e di attenzione verso gli altri: solo così si potrà costruire quel patto educativo globale proposto da Francesco, che ha come premessa e come obiettivo la fraternità universale.

Per la pace

È partita dall’istituto Barbarigo di Padova, già impegnato per la Quaresima a raccogliere fondi a favore dei profughi ucraini ospitati in Seminario minore a Rubano, l’iniziativa di dedicare 5 minuti, ogni mattina dalle 7.50 alle 7.55, alla preghiera per la pace in Ucraina e nel mondo. La proposta sta coinvolgendo le varie classi e, attraverso l’Ufficio scuola della Diocesi, si è diffusa anche tra gli insegnanti di religione e non solo. Un modo semplice e silenzioso per contribuire alla causa della pace, ma anche per dare concretezza alle pratiche quaresimali del digiuno e della carità, che trovano
nella relazione con il Signore e in un pensiero di bene per i fratelli la loro motivazione più profonda. Vuole anche essere la risposta all’appello rivolto da papa Francesco nella Fratelli tutti, letta in tutte le classi delle superiori durante le ore di religione, a vivere una vera “spiritualità della pace” che diventi poi, nel concreto, motivazione e azione.

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