Cucine popolari. «Una casa accogliente dove Gesù Cristo è il cuore»
Dal 1929, quando le suore terziarie francescane elisabettine si trasferirono nella sede delle Cucine economiche popolari
in via Tommaseo a Padova, la porta che si apre quando qualcuno bussa è una porta di casa, aperta da qualcuno che abita quello spazio.
Una presenza che aggiunge un significato più profondo all’accoglienza, scopo principale delle Cucine fin dalla loro fondazione. L’occasione per riflettere su questo significato è stata offerta dalla 26a Giornata mondiale della vita consacrata, che è stata celebrata il 2 febbraio. È stata istituita da Giovanni Paolo II nel giorno della presentazione di Gesù al tempio «per offrirlo al Signore» (Lc 2,22), come dono totale della propria vita a Dio e ai fratelli, caratteristica delle consacrate e dei consacrati. Il dono totale caratterizza anche la vita di Elisabetta Vendramini, che proprio a Padova, in una soffitta da lei definita «splendida reggia della santa povertà», fondò nel 1828 la congregazione delle suore Elisabettine.
«Madre Elisabetta aveva due passioni: la passione per l’uomo e quella per Dio – spiega la direttrice delle Cucine economiche popolari, suor Albina Zandonà – Diceva che bisogna essere donne “contemplative nell’azione”, trovando Dio in ciò che si fa e prendendosi cura dell’uomo. Questa è una realtà che ci appartiene profondamente: la passione per l’uomo in una condizione di vulnerabilità e il senso molto forte della dignità dell’uomo in quanto figlio di Dio. Una dignità che appartiene a ogni essere umano, indipendentemente dalle sue condizioni. Su questo nei suoi scritti ci ha lasciato delle immagini molto belle».
Una di queste parla di una borsa: se trovi una borsa sporca e infangata, ma sai che contiene del denaro, la raccogli e la pulisci, perché dentro c’è qualcosa che vale. «Madre Elisabetta usava l’espressione “cavar anime dal fango” per quelle situazioni in cui a prima vista non c’è niente di buono. Ma se io credo che ogni uomo abbia la dignità di figlio di Dio, può anche essere sporco, maleducato o peccatore, questo basta e io mi devo avvicinare a lui con rispetto per aiutarlo a risplendere nuovamente, come possibile e come vuole lui». Un’altra immagine è quella del quadro: «Se ho dei quadri che rappresentano il volto di mio padre, ma alcuni sono riusciti meno bene, posso riporli in soffitta, ma quando mio padre muore li riprendo, perché per me hanno un valore profondo affettivo, che non è economico – continua suor Albina – Così ogni uomo mi richiama Dio e per me ha un valore. Questo rispecchia anche il senso della nostra presenza di noi Elisabettine alle Cucine popolari, dove accogliamo persone in condizione di disagio».
Ad affidare alle suore Elisabettine le Cucine economiche popolari fu il vescovo Giuseppe Callegari nel 1883, dopo un incontro con Stefania Ezterodt Omboni, benefattrice di fede protestante con una concezione laica dell’assistenza, che le aveva fondate l’anno prima, dopo che una violenta alluvione aveva messo in ginocchio centinaia di famiglie padovane. Il vescovo se ne assunse la presidenza, abbozzò uno statuto e un programma e mise a disposizione alcuni locali in un edificio di viale Codalunga, a due passi dall’istituto delle suore Elisabettine in via San Giovanni da Verdara. Stefania Omboni rimase comunque l’anima delle Cucine per altri dodici anni, anche all’interno del consiglio direttivo, fino a quando non si dimise per dedicarsi all’infanzia abbandonata. Nel 1900 la sede principale venne trasferita in via fra Paolo Sarpi, in un edificio più spazioso e adatto alla crescente affluenza degli ospiti e la mensa di viale Codalunga rimase come succursale. Il trasferimento in via Tommaseo risale al 1914 e la presenza stabile delle Elisabettine è cominciata nel 1929. Le religiose, che da anni svolgevano il loro servizio alle Cucine, recandovisi tutti i giorni dalla casa madre di via San Giovanni da Verdara, ne fecero la loro casa, offrendo un pasto caldo ai poveri tutti i mesi dell’anno e non solo, come accadeva fino ad allora, da ottobre a marzo. Durante la seconda guerra mondiale i pasti offerti quotidianamente superarono i tremila. Ma durante un bombardamento l’edificio venne danneggiato e solo dopo un importante intervento di recupero la mensa venne aperta anche la sera.
«Noi abitiamo questo spazio e questo tempo – sottolinea suor Albina Zandonà – Qui siamo a casa. Siamo una presenza che abita. C’è chi dice: è un contesto degradato e le cucine stesse portano degrado. Ma noi qui ci abitiamo e quello che cerchiamo di fare ancora oggi è avvicinarci in punta dei piedi a persone che la vita ha abbruttito, con il desiderio di ridare loro dignità, cogliendo degli aspetti per cui la persona possa riscattarsi. “Cavar anime dal fango” vuol dire toglierle, non lasciarle là. C’è l’aspetto educativo del “tirar fuori”. Noi siamo qui per questo. E questo è il senso della presenza della vita religiosa, perché le Cucine sono un’opera della Diocesi».
Il senso di tale scelta è riassunto nella cappellina, una piccola stanza con due porte, una che dà nella sala da pranzo e l’altra sulle scale che portano all’appartamento delle suore, al secondo piano. «Gesù Cristo è il cuore di questa realtà - conclude la direttrice – e vogliamo che questo cuore pulsi sia all’interno della nostra comunità, ma anche e soprattutto all’interno della comunità degli ospiti. La stragrande maggioranza delle persone che entrano alle Cucine popolari sono musulmane e ci sono anche volontari che si dichiarano atei. Ma questa è una realtà della Chiesa, aperta ad accogliere tutti. E il fatto di avere chiara qual è la nostra identità ci permette di metterci in relazione con gli altri. Se io so chi sono, non ho bisogno di difendermi e vivo l’incontro come una ricchezza».
Una pagina su Cucine e Fondazione Nervo Pasini
Torna la pagina dedicata alla Cucine economiche popolari, che nel 2022 festeggiano 140 anni di attività, e alla Fondazione Nervo Pasini. L’appuntamento, da ottobre dello scorso anno, è ogni prima domenica del mese.