Asia. La piccola Chiesa dei fidei donum in Thailandia
I nostri missionari padovani, vicentini e bellunesi raccontano l'esperienza dell’essere minoranza nelle due comunità cattoliche.
«Non siamo qui per aumentare il numero di battezzati ma per condividere la fede e poi lasciar spazio allo Spirito Santo». È uno dei messaggi forti, quasi una lezione spirituale ed ecclesiale, che arriva dalla missione triveneta nella lontana Thailandia. Sono parole di don Bruno Soppelsa, uno dei preti fidei donum in quella terra che abbiamo raccolto grazie a don Ferdinando Pistore, della diocesi di Vicenza che abbiamo raggiunto via whatsapp.
Fino a qualche anno fa' una comunicazione del genere sarebbe stata complicatissima. Oggi grazie alle nuove tecnologie le distanze si annullano e così grazie a don Ferdinando abbiamo raccolto le testimonianze degli altri preti fidei donum lì presenti (non don Bruno Rossi dovuto rientrare precipitosamente in Italia per la mamma) e anche quella del vescovo Pellegrini, in Thailandia per una visita alla missione.
La missione nel paese asiatico è stata decisa a livello di Trivento dai vescovi dopo il primo Convegno di Aquileia. È attualmente composta da due parrocchie Chae Hom e Lamphun (nell'articolo sotto nel dettaglio la presentazione) e conta cinque preti fidei donum: i padovani don Bruno Rossi e don Raffaele Sandonà (a Chae Hom, missione avviata nel 1998 da Piero Melotto e don Gabriele Gastaldello ed ereditata dal Pime da p. Sandro Bordignon), don Attilio De Battisti (padovano) e Bruno Soppelsa (diocesi di Belluno) a Lamphun. Don Ferdinando Pistore fino all'anno prossimo sarà a Bangkok ospitato da una parrocchia per studiare la lingua Thai e poi si unirà alla parrocchia di Lamphun.
Le testimonianze di questi preti fidei donum mostrano come dall'Asia possa venire una grande lezione di fede e di Chiesa e un aiuto forte a quella conversione missionaria che papa Francesco ha più volte indicato come prioritaria.
«Più delle parole - afferma don Soppelsa che è anche il coordinatore della missione - conta che tipo di vita facciamo, il modo con cui andiamo incontro alle persone, l’attenzione che diamo loro, i progetti che proponiamo. La prima testimonianza è la nostra vita. Se poi ci chiedono perché lo facciamo, allora diventa che più semplice parlare di Gesù e fare una catechesi esistenziale. Anche la nostra vita di comunità di sacerdoti, fatta si serenità e condivisione è già una testimonianza di vita fraterna ed è un modello che portiamo e proponiamo».
Certo l'impatto con questa realtà così diversa non è semplice. Don Raffaele Sandonà, padovano, classe 1978, prete dal 2003 è passato direttamente dall’attività di capellano al missionario fidei donum. «È un passaggio non facile - ci dice - perché ti obbliga a fermarti dopo che sei abituato all’attività pastorale frenetica in Italia. Arrivi qui e devi ricominciare da zero a partire dall’imparare la lingua proprio come i bambini.
Non hai tante attività pastorali. Non hai relazioni, sei impossibilitato a parlare e a comunicare. Ho fatto l’esperienza dell’extracomunitario. Il non sapere la lingua e doverci introdurre ci dà una vaga idea di cosa vuol dire essere stranieri in un’altra terra».
Sulla lingua si concentra anche la testimonianza di don Ferdinando Pistore. «La lingua - ci dice - è impegnativa e richiede pazienza ma è anche molto affascinante. Questo studio ha assorbito tutta quanta la mia mente all’inizio del ministero missionario. Questo è significativo non solo perché la lingua è uno strumento, ma anche perché è un percorso missionario, come io sento missionari tutti i parroci delle nostre parrocchie vicentine. È una visione di missione: quando arrivi in una nuova parrocchia la prima cosa che fai è tentare di imparare il linguaggio e capire la storia, i modi di approccio. Da questo punto di vista non mi sento più missionario dei preti e dei laici che vivono la loro vita cristiana nelle nostre diocesi».
Rispetto all'esperienza in corso don Raffaele sottolinena che «la cosa che mi attira anche oggi è che questo essere minoranza ti dà anche una libertà di pensare la fede, una semplicità di riscoprire le piccole cose dove si vive la fede a contatto con la semplicità della vita. È la fede delle piccole cose di ogni giorno fatto quasi in simbiosi con la natura che qui è molto forte, rigogliosa, che ti costringe a ritornare a essere più uomo».
Sull'essere minoranza don Attilio De Battisti racconta che «sono arrivato qua con l’idea classica che la Chiesa presente in Asia sia una chiesa con percentuali davvero infime. Però - prosegue - dopo dieci anni vorrei smentire questo tipo di “pregiudizio”. Se, infatti, consideriamo il cristianesimo non dal punto di vista dell’anagrafe, ma dal punto di vista dei valori e di chi ne è portatore, valori che ritroviamo anche in tradizioni e in percorsi spirituali diversi, allora possiamo dire che il cristianesimo è molto più ampio dei numeri». «La chiesa - precisa - non è solamente il fedele che viene la domenica in chiesa. Io sono qui come missionario non tanto per una plantatio ecclesiae nel senso di avere persone che fanno la comunione, aderiscono ai sacramenti e basta. Ovviamente anche di questo mi prendo cura perché, come prete diocesano, la cura pastorale fa parte del mio Dna; però Chiesa è ogni persona, ogni realtà che si sforza di tradurre nella vita quotidiana i valori del Vangelo. Quindi, metterei più al centro il Regno di Dio che la Chiesa in quanto istituzione».
La questione di come vivere la fede, di cosa mettere al centro si comprende essere decisivo. Don Attilio aggiunge: «Quando mi si dice: “Che cosa fai a Lamphun con una comunità che non supera i cento battezzati?”, mi sento di dire che io non sono stato inviato solo per accompagnare quei cento cristiani nella loro faticosa testimonianza e nel mantenere ferma la loro fede. Ma ho davanti un sacco di cercatori di verità, di persone che hanno a cuore il bene comune, il fare il bene, che magari loro chiamano “fare meriti”, o “destino”, o “karma”, ma quello che stanno vivendo è un valore evangelico. Sono parte del popolo di Dio che mi è stato affidato, con cui devo camminare e con cui cercare anche dei percorsi di dialogo, di miglioramento reciproco.
L’evangelizzazione passa attraverso l’incontro quotidiano, attraverso la conoscenza reciproca, l’amicizia con altre religioni, quando è possibile anche attraverso un confronto d’idee, di valori, di storia, di Santi. Mettere a confronto il Santo patrono della nostra parrocchia, San Francesco, con i loro Santi buddisti, tra l’altro tutti nati a Lamphun, per me è azione missionaria».
A nessuno poi sfugge il senso profondo di questa presenza decisa da una Chiesa nel suo insieme. «Don Ferdinando a tal riguardo evidenzia che questo «è un atto di generosità non tanto mio personale quanto del presbiterio e della chiesa vicentina uniti al Vescovo, nel senso che il fatto di mantenere aperte le missioni con la presenza di nostri preti non è stata una scelta personale o di qualcuno o solo del Vescovo: è stata una decisione condivisa con tutti i preti con tutto il presbiterio vicentino. Quindi, la cosa che mi dà tranquillità e serenità e la gioia di essere qui è che sento il mio esser qui come un atto di condivisione, di apertura, di tutta la chiesa vicentina insieme al nostro Vescovo».