4 ottobre, san Francesco: sia laudato chi non spreca le "cose"
Francesco, l’eterno sconosciuto!? Domanda ed esclamazione, stando al poco che la gente sa e ricorda sul poverello di Assisi. Non lo spiegano a scuola. Frammentaria è la sua descrizione nei testi ufficiali di storia. Strattonato poi in vita come in morte da molte ideologie, non ultima quella ambientalista che l’ha ridotto a “santino per tutte le stagioni”. Pochi rammentano che sia pure il patrono degli italiani.
Il nome però rimane sulla bocca di tutti: Francesco d’Assisi. “Santo di terra, uomo di Cielo” come l’ho definito nel mio spettacolo a lui dedicato Per Francesco, che presenteremo domenica 5 ottobre alle 17.30 all’oratorio del Confalone in Piazza Duomo a Vicenza.
Sono convinto che servirebbe una rieducazione nazionale per recuperare l’autenticità di una delle figure storiche più emblematiche, e tra i santi più conosciuti al mondo.
La coincidenza dello spettacolo non è casuale, perché quel sabato 4 ottobre (stesso giorno di oggi) del 1226 all’età di 44 anni, Francesco lasciava il suo corpo per volare verso l’Altissimo bon Signore.
Quest’ultimo spaccato di vita del poverello di Assisi è un capolavoro di umanità, che varrebbe bene essere raccontato con precisione e sistematicità storica, come che fa bene la storica Chiara Frugoni nei suoi libri monografici.
Il capitolo finale della vita di Francesco è il più affascinante, dato che parliamo del primo santo cristiano a morire cantando e sorridendo. Spogliato della stessa povertà di cui si era rivestito, ora lui sente di dover tornare alla terra. Ma prima chiede ciò che nessuno avrebbe mai osato pensare per un santo: domanda a frate Jacopa De Sette Soli, amica nobildonna romana, di assaggiare per l’ultima volta quei «dolcetti che tanto mi piacciono».
I “mostaccioli” di mandorle e miele: ultimo atto di godimento per i frutti di questa terra, che lui chiama “sora” alla stregua della morte che sta per incontrare.
Un passaggio che sembra svilire la figura ieratica del santo, mentre invece ne esalta l’umanità, ridando valore alle “cose” semplici ed essenziali.
“Cose” in cui lui rivedeva l’immagine stessa dell’Altissimo. E dico “cose” per dire alberi, foreste, animali, ma anche quei volti umani come i lebbrosi che nel medioevo non meritavano neppure l’appellativo di “uomo-cosa”.
Francesco soverchia con gentilezza, come pure con vigore, il concetto del rapporto “tra noi e cose di questo mondo”. Lo fa in una forma dualistica: da una parte esaltandone l’essenzialità. Dall’altra accentuandone la distanza.
Di più, restituisce in questo suo travagliato percorso di vita, la dignità e la bellezza di tutte le “cose”.
E chissà cosa avrebbe da dire su di noi oggi che di “cose” che riempiono la nostra vita, come mostra una recente ricerca statistica, ne abbiamo più di 10mila a testa.
Diecimila oggetti di cui ci circondiamo, cercandone l’utilità e la felicità. Chissà a quale ragionamento c’indurrebbe Francesco? Facile da pensare, difficile da praticare conoscendo le nostre abitudini “consumistiche”.
Eppure, la radicalità del suo messaggio, stravolto anche dal francescanesimo stesso, parla di libertà dalle “cose”. Ma ne chiede pure il rispetto e senza spreco, esaltando l’identità e la specularità tra le cose del cielo e quelle in terra. Un’autentica rivoluzione che dura da otto secoli e sprona laici e credenti, a non restare attanagliati e quindi posseduti dalle “cose” stesse.